martedì 9 febbraio 2010
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Magari questo non sarà per l’Unione europea, come invece prevedono alcuni analisti, l’annus horribilis, carico di bancarotte, funestato dalla fragilità dell’euro. Ma è già evidente che i mercati internazionali non credono ai vaghi messaggi di fiducia lanciati da esponenti istituzionali, come i ministri e i governatori del G7 che l’altro giorno hanno lasciato il vertice di Iqaluit (estremo Nord del Canada) affermando che la Grecia rimetterà in ordine i suoi conti nel giro di due anni, e che non è prevedibile una richiesta di aiuto al Fondo monetario internazionale. Ovvero, come ha detto il presidente della Banca centrale europea (Bce) Jean-Claude Trichet, che l’Unione è perfettamente in grado di risolvere da sola i suoi problemi, e in particolare di tenere sotto controllo le mosse economiche del governo di Atene. Le cose, purtroppo, non stanno così. L’economia dell’Unione, che l’ambizioso vertice di Lisbona 2000 profetava per quest’anno «la più competitiva del mondo», traballa nei confronti della concorrenza, patisce un tasso di disoccupazione che supera in media il dieci per cento, declina in produttività (anche per via della calante qualificazione dei lavoratori), cresce poco più dell’uno per cento annuo, con riflessi negativi, alla lunga, pure sul Welfare State. Come se non bastasse, l’euro, unica vera conquista e arma comune di sedici Paesi, dà segni di debolezza. Colpa della speculazione internazionale, che può ricordare quella del 1992 contro la lira, ma anche e soprattutto delle difficoltà della Grecia (che per deficit di bilancio e debito pubblico, accompagnati da crescita stagnante o negativa, è vicina al tracollo), del Portogallo e della Spagna. Soccorrere la Grecia, che pesa soltanto per il 4 per cento sul Prodotto interno lordo europeo, sarebbe relativamente facile. Ma per gli altri Stati declinanti, ai quali bisognerebbe aggiungere almeno l’Irlanda, che fare? Da tempo la Bce studia l’imprevista possibilità di espellere radicalmente dall’eurozona un Paese troppo indebitato, ma, una volta questi fosse espulso e avesse svalutato per aiutarsi, i suoi debiti diverrebbero insostenibili, spalancandogli come unica via quella dell’insolvenza: la via dell’Argentina. La via dell’Argentina insidia dunque l’Unione, o almeno alcuni suoi Paesi? Crediamo di no, nei tempi brevi, ma i motivi di preoccupazione non mancano. Quello fondamentale è che l’Unione non è in grado, per mancanza di strutture politico-economiche adeguate e di regole formalizzate, di affrontare efficacemente e tempestivamente questo come qualunque altro tipo di emergenza. Nella fattispecie, il tanto citato Patto di stabilità non prevede per i membri inadempienti dell’eurozona che una multa. Mentre il deficit politico dell’Unione, a partire dalla mancanza di un forte governo centrale e dalla frammentazione delle cariche (rivestite talvolta, come nella attuale Commissione, da personalità di basso profilo), fa sì che in questo delicatissimo frangente socio-economico Jean-Claude Trichet, come affermano commentatori inglesi e statunitensi, sia di fatto il vero presidente dell’Unione, almeno per i Sedici aderenti all’euro. Circostanza che può non piacere a cittadini, Parlamento e Consiglio europei. Se è così, battano un colpo il Parlamento, chiamato oggi a votare il nuovo esecutivo di José Manuel Barroso (designato ben due mesi e mezzo fa) e i leader partecipanti al vertice economico di giovedì prossimo. Lì non è tempo di microeconomia, ma di lanciare un credibile segnale che l’Unione è pronta a varare un forte, unitario piano anticrisi.
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