Un amaro processo, la guerra alla mafia. Perché le coscienze non possono tacere
sabato 21 aprile 2018

Gentile direttore,
quando le armi urlano le coscienze tacciono e, quando la coscienze tacciono, non esistono più né regole né onore ma solo eroi. Me lo diceva sempre mio nonno, combattente in Africa durante la Seconda guerra mondiale, ogni qual volta gli confidavo di voler fare il carabiniere. Ciò, in un periodo in cui più che mai la mafia sparava, metteva le bombe e uccideva innocenti. Poi, un giorno mi sono ritrovato “in guerra” e, solo allora, ho capito che cosa mio nonno volesse dire. Apprendo con grande rammarico della condanna del generale Mori e degli altri carabinieri che hanno operato in contesti in cui «le coscienze erano atterrite dall’urlo delle armi e regole ed onore erano prerogativa solo degli eroi». Di questa storia non posso e non voglio giudicare i fatti e neppure le “carte”, che non conosco, sono sicuro, però, che a volte le carte dicono cose diverse rispetto ai fatti. Così, mi viene ancora in mente un’altra cosa che mio nonno ogni tanto ribadiva: «Nipotino mio, quando sei in guerra e combatti veramente, ti possono succedere solo cose brutte, puoi morire, rimanere ferito o, se proprio sei “fortunato”, essere fatto prigioniero. La differenza però è che, se muori o rimani ferito, indipendentemente da come è successo, vieni ricordato come un eroe, se invece ti fanno prigioniero, rimani semplicemente uno che si è arreso». Io so che il Generale e gli altri carabinieri, dopo lunghi anni di “guerra” alla mafia, stanno ancora combattendo per non essere fatti prigionieri, ai posteri giudicare chi è stato il loro vero nemico, se lo Stato o la mafia.
Vincenzo Drosi, maresciallo dei Carabinieri in congedo


È davvero emozionata ed emozionante, gentile maresciallo Drosi, questa sua lettera sulla prima sentenza nel processo sulla «trattativa Stato-mafia». E mi ha molto colpito. Di lei so ciò che lei stesso mi dice, e cioè che ha servito nell’Arma, ma anche che è stato posto in congedo prima del previsto a causa di gravi ferite riportate facendo il suo dovere. Ciò che racconta di suo nonno, aiuta ancor meglio me e gli altri amici lettori a capire di che pasta anche lei è fatto e quali ideali l’hanno formata: certamente improntati al quel binomio «disciplina e onore» che la nostra Costituzione propone come misura e stile del servizio reso da quanti esercitano, a ogni livello e con diverso grado di responsabilità, un ruolo pubblico. Tutto ciò mi induce a considerare con ancora più rispetto le sue parole e a fare ogni sforzo per comprendere la sua amarezza. Non conosco abbastanza neppure io le “carte” del processo su quella che abbiamo definito sulla nostra prima pagina di ieri «la malatrattativa» e commentato con il lucido e coraggioso fondo di Danilo Paolini. E quel che so non mi autorizza ad azzardare sul complesso dell’operato dei magistrati giudizi che sarebbero pregiudizi. Ma conosco molti uomini delle Forze dell’ordine e, tra loro, non pochi che vestono la divisa dei Carabinieri. So bene che non sono infallibili, ma so altrettanto bene che le “mele marce” sono la triste eccezione che conferma la regola di una grande pulizia di vita e d’azione e di una generosa fedeltà alla Repubblica (che non è un’entità astratta, ma siamo tutti noi), regola sulla quale gli stessi uomini delle forze dell’ordine sono chiamati a vigilare con speciale attenzione. Per quel che vale, a mia volta sono certo che il generale Mori e gli uomini del Ros oggi condannati continueranno a battersi per dimostrare la giustezza del proprio operato.
Conosco, poi, molti dei fatti. E ciò che conosco mi aiuta a rendermi conto che qualcosa di molto serio e poco limpido accadde dietro le quinte degli anni concitati e decisivi della «risposta dello Stato» che seguirono la terribile stagione stragista di “cosa nostra” del 1992-93. Certo accaddero anche cose riprovevoli, come in ogni guerra. Ed è proprio questo che ha mosso un processo giudiziario che ha scosso e inquietato anche me. I lettori sanno che nell’estate del 2012 mentre questa vicenda processuale toccava e coinvolgeva in modo clamoroso importanti personalità e tra esse persone «per bene» che in anni di lavoro ho avuto la possibilità di conoscere, vedere all’opera e stimare, non esitai a dire e scrivere parole ferme e chiare di preoccupazione. E di dissenso. Penso in particolare a come venne investito tramite intercettazioni “impossibili” Loris D’Ambrosio, uomo e magistrato di grande levatura morale e professionale, morto letteralmente di crepacuore. E penso a ciò che ha dovuto vivere in questi anni Nicola Mancino, già ministro dell’Interno e presidente del Senato, ora assolto totalmente dall’accusa di falsa testimonianza. Mancino – da giurista e politico galantuomo qual è – si è difeso “nel processo e non dal processo”, mostrando ancora una volta a non pochi protagonisti di quella che a lungo è stata chiamata «nuova politica» (oggi ormai vecchia e quasi archiviata) che cosa significhi nutrire autentico senso delle Istituzioni anche davanti a una palese ingiustizia aggravata dallo stringersi di una tenaglia politico-mediatica mirata a tagliarti fuori, e con immeritata ignominia, dalla vita pubblica.
Un amico molto profondo, che veste a sua volta la toga del magistrato, mi ha consegnato in questi giorni una riflessione che considero molto utile e saggia e sono certo che non si dorrà se la richiamo qui, ora, sia pure un po’ sommariamente. «Se una “trattativa” tra uomini dello Stato e uomini della mafia ci fu, va giudicata politicamente e storicamente. Si potrà dire che è stata un grave errore politico o, al contrario, che fu necessitata. Ma, in ogni caso, non la si potrà chiudere nel “vestitino” di una norma penale. Comunque sia andata, l’elemento psicologico che può aver mosso uomini di Stato a un contatto con uomini della mafia non sarà mai lo stesso dei mafiosi». Di questo sono convinto anch’io. Così come sono consapevole del fatto che ci sono verità storiche (e morali) che non sempre coincidono con quelle che possono essere rincorse e accertate (eppur si deve...) in un’aula giudiziaria.
Un ultimo pensiero è per la fulminante frase con cui lei, gentile maresciallo ha aperto la sua lettera. Ne capisco il senso e posso intenderne anche la buona intenzione, ma sono di un’altra scuola. Quando le armi urlano, le coscienze non possono tacere. E questo l’«eroismo», cristiano e civile, che ci è chiesto di vivere con semplicità e tenacia e che motiva ogni resistenza al male, all’ingiustizia, all’indifferenza, alla mafia.

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