lunedì 21 aprile 2014
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Caro direttore,
vogliamo raccontarle una piccola storia istruttiva. Al Pronto Soccorso del “Bassini” di Cinisello Balsamo qualche giorno fa abbiamo dimesso una persona disabile, affetta da una patologia degenerativa che progressivamente va a paralizzare tutti i muscoli del paziente, peraltro già tracheostomizzato e con la peg (il famoso “sondino”) per l’alimentazione. In seguito a un eccesso di catarro, espettorato con violenza, la stessa peg era saltata e abbiamo dovuto intervenire, come da manuale. Nel tragitto di rientro la conversazione era a una sola voce, la nostra, perché lui poteva solo ascoltare: ci vedeva, ma non parlava. Annuiva soltanto. A un certo punto uno di noi gli ha fatto una carezza. Lui, ha sospirato, ha chiuso gli occhi ed è stato come se si “prendesse delle coccole”. Età oltre i 40. Allora, abbiamo insistito con la carezza. Quasi si addormentava, rasserenato. Lezione 1: vi sono pazienti disabili che nessuno tocca mai, forse da anni, cioè da quando hanno perso i loro parenti; ci siamo resi conto che il bisogno di contatto fisico talvolta è così forte che senza di esso un uomo perde il senso della stessa prossimità umana... al punto che ci è venuto da dire: «Ma tu guarda, quanto bisogno d’umano affetto una persona può portare dentro, tu lo soccorri materialmente ma umanamente non lo sfiori neppure!». Tutti – tutti! – portiamo dentro un bisogno senza confini ...e come è facile aiutarsi e come nello stesso tempo difficile trovare una carezza! Lezione 2: non è richiesto dal protocollo “dare la carezza”, non lo insegnano e, soprattutto, non è considerato un segno peculiare del bravo soccorritore…
Pippo e gli altri volontari
di Croce Padre Kolbe
 
Davvero una piccola storia istruttiva, cari amici: la vicenda minima e coinvolgente di una carezza. Grazie per averla condivisa con noi, e proprio in questi speciali giorni del difficile tempo che stiamo vivendo. Ha la forza tranquilla eppure rivelatrice di una parabola e la concretezza della vita vera. E può aiutarci davvero a riportare alla mente qualcosa che ci riguarda profondamente, come un ricordo d’infanzia. Quella consapevolezza che la predicazione misercordiosa e incalzante di Papa Francesco già ha richiamato e rianimato con semplicità ed energia: abbiamo fame di tenerezza, tutti. E non solo nelle situazioni e nelle fasi della nostra esistenza in cui la fragilità emerge in modo prepotente e la sensibilità si fa più acuta. Eppure, cari amici, troppo spesso viviamo come se fosse disdicevole ricevere conforto e affetto e più ancora donarli. Basta l’efficienza del soccorso, quando c’è. E, in fondo, ognuno basta per sé. Ma non è mai troppo tardi per cambiare, per rivoluzionare lo sguardo sugli altri e su noi stessi. Non è mai troppo tardi per ritrovare l’allegria e la forza che ci sono necessarie per saper dare e accettare una carezza, cioè per prendersi cura gli uni degli altri. Perché non abbiamo da inventare nulla: le carezze si danno con le mani che abbiamo, anche se sono sudate di emozione e di ansia, screpolate dal freddo patito, segnate dalle ferite, rese ruvide dalla fatica di vivere. Perché le carezze si ricevono con la pelle che abbiamo, non con un’altra, magari levigata a proposito. Dobbiamo farci bastare non qualche presunzione, ma queste mani e questa pelle. E non c’è giorno migliore del giorno di Pasqua per ricominciare a capirlo, per sperimentarlo, per riassaporare i gesti innocenti e sapienti che dicono e ripetono un amore di padre e di madre, un amore di fratelli, che danno calore e luce ai rapporti umani e rendono più sopportabili solitudini e sofferenze. Grazie ancora, cari amici, per avercelo ricordato con il racconto di una storia piccola e buona. E auguri. Auguri a ciascuno di noi. Perché, proprio oggi, abbiamo la prova che la tenerezza di Dio per la nostra povera e splendida umanità continua a sconfiggere la smemoratezza e persino la morte. Gesù Cristo è veramente risorto.
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