giovedì 28 gennaio 2016
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L’ignobile tratta dei bambini-soldato ha mobilitato in questi anni la società civile internazionale. D’altronde, l’impiego dei minori nelle azioni belliche, soprattutto dove sono in corso guerre asimmetriche, è un dato incontrovertibile che non può lasciare indifferenti: dall’Iraq alla Siria, dall’Afghanistan alla Nigeria, dalla Somalia alla Repubblica Centrafricana, dal Sud Sudan al settore nordorientale della Repubblica Democratica del Congo. Ognuno di questi combattenti, indipendentemente dallo scenario in cui opera, assume il duplice ruolo della vittima e del carnefice. Da una parte il giovane combattente, poco importa se appartenga a questa o a quella nazionalità, viene costretto a sacrificare la propria innocenza; dall’altra esso/a si trasforma spesso nel più crudele degli aguzzini. Oggi, nel mondo, complessivamente, sono più di 250.000 i bambini soldato e 23 gli Stati che utilizzano minori nelle ostilità, in forma diretta o indiretta. Il loro utilizzo, evidentemente, è una gravissima violazione dei diritti umani e un ripugnante crimine di guerra. A questo proposito, nel corso dell’ultimo ventennio, vi sono state, soprattutto nell’Africa Subsahariana, delle esperienze significative dal punto di vista del recupero (sia psicologico sia scolastico/lavorativo), finalizzate alla reintegrazione di questi minori nelle loro rispettive comunità. U n numero rilevante di Organizzazioni non Governative (Ong) e congregazioni missionarie hanno investito risorse umane ed economiche con grande zelo e dedizione in questa nobile causa. Ciò ha determinato la messa a punto di procedure, in collaborazione con le forze multinazionali di pace, che si sono rilevate proficue. Ad esempio, in Sierra Leone, alla fine degli anni ’90, al momento del rilascio, il bambino/a soldato veniva accompagnato/a dal proprio ufficiale ribelle agli appositi centri di disarmo, sotto la supervisione dell’Ecomog (la forza militare d’interposizione dei Paesi dell’Africa Occidentale) e dell’Unamsil (il contingente Onu dispiegato nell’ex protettorato britannico). Il suo nome era iscritto su uno speciale registro e così acquisiva lo status di “ex combattente”. Successivamente, avveniva il trasferimento in un campo di smobilitazione dove il minore otteneva lo “stato civile”. Qui scattava l’operazione di ricerca dei familiari. Il ricongiungimento con i parenti era, certamente, la fase più delicata del percorso di recupero e rappresentava in molti casi un ostacolo che poteva rivelarsi insormontabile. A volte capitava che il campo di smobilitazione fosse lontano dal villaggio natale del ragazzo/a che doveva quindi essere trasferito/a nel centro più vicino alla sua zona d’origine. Il vero trauma era però quando, dopo lunghe ricerche, il ragazzo/a subiva il rifiuto dei propri cari. Poteva capitare che i genitori fossero morti e che la “famiglia estesa” (zii, cugini o nonni) non intendessero farsi carico di questo nuovo onere; per molti nuclei familiari il ragazzo/a era soltanto una bocca in più da sfamare, in un tempo, peraltro, di grande indigenza. Ma vi erano altre situazioni ancora più dolorose. In quegli anni, in Sierra Leone, la popolazione autoctona conosceva molto bene (per esperienza diretta) gli atti criminali che i giovani ribelli erano stati capaci di compiere (mutilazioni, uccisioni…). Dunque vi era una diffusa paura che questi ex combattenti, sebbene fossero figli o fratelli, potessero essere ancora pericolosi. Inoltre, in molti casi risultava che i ragazzi/e provenienti dalla guerriglia fossero degli sconosciuti per i loro stessi parenti, avendo lasciato le proprie dimore in giovanissima età, anche a sette/otto anni. Ma quali sono stati gli effettivi risultati di questi programmi di riabilitazione? Purtroppo, il monitoraggio di queste iniziative è stato in molti casi a breve termine per cui, oggi, valutare a distanza di anni, il cosiddetto follow up risulta molto difficile. In termini generali, si può, comunque, affermare che il processo di recupero di questa gioventù bruciata ha seguito diverse direttrici. Su un campione limitato, ma variegato, di 60 ragazzi (30 sierraleonesi e 30 norugandesi) e 40 ragazze (20 sierraleonesi e 20 nordugandesi), rintracciati da chi scrive nel corso degli ultimi 10 anni (attraverso la posta elettronica e incontri personali), risulta quanto segue: il 19% è tornato nel proprio contesto familiare ed è ben integrato; il 28% è oggi impegnato in attività lavorative manuali lontano dalla famiglia; il 3% è tornato a studiare (in tre casi, addirittura è stata conseguita la laurea universitaria); il 22% è entrato a far parte della microcriminalità e ha subito il rifiuto della propria comunità etnica di appartenenza; l’8% si è tolto la vita per depressione; il 17% opera nell’ambito di società militari private; il 3% ha perso la vita in scenari bellici successivi all’esperienza come bambini/e soldato nei rispettivi gruppi ribelli (Libia, Ciad, Repubblica Centrafricana e Mali). Da rilevare che nessuno degli intervistati ha accettato di rievocare l’esperienza di bambino/a soldato considerata unanimemente “inqualificabile” e “ripugnante” (anche coloro che oggi svolgono servizio militare hanno dato questo giudizio). Inoltre, nel 75% dei casi vi è riconoscenza per il servizio riabilitativo offerto dalle Ong, col rammarico, però, che sia stato troppo breve rispetto alle proprie attese. Rispetto al suddetto campione, coloro che si sentono realizzati professionalmente sono oggi il 12% del totale, quasi tutti attualmente impiegati in società militari private. Essi dispongono di uno o più conti in banca presso istituti di credito keniani, sudafricani e ugandesi. I l fenomeno del reclutamento dei minori è comunque sempre stato legato a questioni scottanti, quali ad esempio: il controllo del territorio per conto di imprese minerarie, la povertà endemica, la militarizzazione delle società e l’assenza di democrazia nel proprio Paese d’origine. Tutte problematiche in gran parte riconducibili all’esclusione sociale in numerosi Paesi del Sud del mondo. Ecco perché lo sfruttamento dei minori per fini bellici è solo una drammatica conseguenza delle ingiustizie che affliggono le società locali, uno degli effetti collaterali della bramosia umana. L’arruolamento dei bambini/e soldato è avvenuto in passato e avviene tuttora in molte periferie del mondo, nei ranghi di formazioni regolari o ribelli, con la complicità di potentati vicini e lontani, per interessi antitetici a quelli del bene collettivo e personale. Vi sono, infatti, imprese che smerciano illegalmente armi e munizioni, con l’intento di avere il monopolio delle commodities (minerali e fonti energetiche).  Ecco perché è necessaria la prevenzione, anche perché negli ultimi anni il fenomeno dell’arruolamento ha subito dei mutamenti che andrebbero valutati con grande attenzione. In alcune zone dell’Africa esso è avvenuto, prevalentemente, in modo coercitivo, attraverso raid perpetrati da bande armate. Sia in Sierra Leone, come anche nel Nord Uganda i villaggi venivano attaccati, messi a ferro e fuoco e spesso i minori assistevano all’uccisione dei propri genitori e parenti. L’ingresso, però, dei movimenti jihadisti, come quello Boko Haran in Nigeria, ha impresso un’ulteriore evoluzione che andrebbe valutata con grande attenzione. Il reclutamento, infatti, avviene anche a seguito di un indottrinamento compiuto nei villaggi rurali tra i giovani, molti dei quali analfabeti. A tale proposito, nel vicino Camerun, dove Boko Haram è sconfinato recentemente, alcuni missionari stanno organizzando dei programmi preventivi di educazione alla pace che possano contrastare il proselitismo dei ribelli. Occorre, pertanto, arrestare l’arruolamento dei minori e governare la pace con le armi del buon senso, consegnando, per così dire, ai ragazzi, “penne e quaderni”.
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