venerdì 22 giugno 2012
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«Avevo 20 anni. E ho preso un ergastolo. Permetterò a tutti di dire che da quel giorno ho iniziato ad amare la vita». Ha preso le parole scritte da Paul Nizan nel 1931 – e divenute quest’anno spunto per una delle tracce del compito di maturità – e le ha parafrasate per scrivere in un foglio riciclato la sua traccia di maturità, quella che dopo oltre vent’anni di vita dietro le sbarre sente albeggiare all’orizzonte della sua vita di ergastolano. Eppure gli ergastoli sono come i diamanti De Beers pubblicizzati in prima serata, «sono per sempre», il fine pena di questi uomini è racchiuso in uno degli avverbi più stringati ma feroci della lingua italiana: «mai». A guardare in faccia quelle tre sillabe tremano i polsi: è un complemento di tempo determinato e indeterminato nel medesimo istante, una spada di Damocle e un invito alla rassegnazione, uno dei massi di Sisifo e un ostacolo inimmaginabile per la speranza. Un ergastolo a vent’anni è una vita che tramonta proprio mentre sta nascendo; e con essa desidèri e aspettative, frammenti di cielo e segmenti di felicità. Perché vent’anni sono pochi per ipotecare un futuro, ma sono troppi per addormentarsi sul presente. Un ergastolo a vent’anni è la lezione di maturità raccolta da questo ragazzo divenuto uomo dentro l’angustia di una cella di galera: l’importante non è vincere o perdere ma farsi trovare pronti quando la sfida s’accende. Per questo permetterà a tutti di dire che da quel giorno ha imparato ad amare la vita. Perché chi uccide sa che si potrà un giorno essere ex-detenuti ma non si potrà mai diventare ex-assassini: a condurre la morte negli occhi di una persona si riceve come credito l’angoscia di un’anima che difficilmente si riappacificherà con se stessa. Ecco perché dietro le sbarre ogni giorno s’affrontano le tre prove della maturità: la riconciliazione con Dio, la riconciliazione con gli uomini e la riconciliazione con se stessi. Delle tre, l’ultima è la più feroce e temuta: perché guardarsi nello specchio è avvertire la forza d’urto di un abisso, calarsi nel ventre di un delitto e uscirne con gli occhi lucidi, sedersi sulla propria storia e sentire la terra che trema. Un ergastolo a vent’anni è un’epigrafe affissa all’ingresso della cella da contemplare giorno dopo giorno: «memento mori» (ricordati che devi morire) era la frase che il servo più umile gridava al generale che nell’antichità rientrava dopo un trionfo bellico, un invito a non lasciarsi sopraffare dalla superbia e dalla grandezza della vittoria. «Memento mori» è l’unica certezza d’uscita dell’ergastolano che, abbrustolito dalla calura estiva e irrigidito dal freddo dell’inverno, sentendo il quotidiano approssimarsi della morte, a volte corre il rischio d’innamorarsi gelosamente della vita. Fino a far coincidere il giorno della sentenza che l’ha condannato a una morte rateizzata con il giorno del battesimo alla vita vera, quella che sotto la cenere non s’arresta nel preparare le prove di canto di una possibile risurrezione. Nell’encicicla Spe Salvi Benedetto XVI parla della speranza come della possibilità d’immaginarsi il futuro al punto tale da produrre un effetto non solo nel momento sperato, ma addirittura iniziando a cambiare il presente. La neuroscienza attesta che la mente umana è passibile di mutazioni per tutta la vita: l’educazione, di conseguenza, non può mai essere una partita persa in principio. Un ergastolano ha sete di speranza, perché la mente di un ragazzo che delinque a vent’anni è una mente che a quarant’anni è probabilmente mutata d’aspetto, nonostante lui rimanga per molti quel «fermo immagine» immortalato davanti alla giustizia. Nonostante per lui quel giorno sia stato il battesimo della sua vera vita: un imbarazzante paradosso per l’uomo d’oggi. D’altronde, per chi guarda da fuori, la Grazia non è sempre comprensibile. 
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