venerdì 23 novembre 2012
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Caro direttore,
mancano pochissimi giorni (e solo una riunione del Consiglio dei ministri) alla scadenza per la presentazione del ricorso alla Grande Chambre sulla sentenza che, in prima istanza, modificherebbe la Legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita. Viste le dichiarazioni ufficiali più volte rilasciate in proposito, sono certa che il governo manterrà la promessa di presentare il ricorso. Del resto sarebbe assai grave che un governo, soprattutto se tecnico, non difendesse una legge dello Stato, votata dal Parlamento e confermata da un referendum popolare.
La scelta di non appellarsi, e quindi di cambiare la legge senza passare dalle Camere, avrebbe un enorme significato politico, e costituirebbe anche un pesante precedente per il futuro. Ma dobbiamo anche entrare nel merito del problema, e avere il coraggio di aprire un dibattito pubblico sulla fondamentale questione dell’eugenetica. La battaglia culturale, politica e legislativa, che si sta svolgendo in Europa e in Italia è questa, ed è inutile girarci intorno: la possibilità che il desiderio legittimo di avere figli sani si traduca in norme discriminatorie, che consentano di utilizzare le nuove tecniche della biomedicina per scartare vite umane ritenute “unfit”, inadeguate.
C’è chi insiste su un’interpretazione riduttiva dell’eugenetica, che sarebbe tale solo se imposta dall’alto, cioè da un governo, e non quando la scelta è dei futuri genitori; altri sostengono che si possa parlare di eugenetica solo quando siano in gioco caratteristiche inessenziali come il colore dei capelli o degli occhi.
Ma l’eugenetica si fonda semplicemente sulla selezione di esseri umani in base al loro patrimonio genetico, qualunque sia la motivazione offerta e di chiunque sia il potere di scelta: si tratta di introdurre nella normativa un criterio di discriminazione su base genetica, e quindi di contraddire, per essere chiari, l’universale principio dell’uguaglianza tra gli esseri umani.
Per questo oggi il problema è innanzitutto la possibilità o meno che nel nostro Paese si possa effettuare la diagnosi preimpianto: le varie sentenze di tribunali civili, come abbiamo anche visto in questi ultimi tempi, sfruttano i margini di ambiguità offerti dalle linee guida dell’ex ministro Livia Turco, ambiguità eliminate nel testo delle nuove linee guida, già approvate dal Consiglio Superiore di Sanità, che aspettano da un anno solo la firma del ministro Balduzzi.
Emanare quelle linee guida significa spazzare via incertezze ed equivoci in questo delicatissimo ambito, perché nel testo formulato durante il mio mandato da sottosegretario alla Salute, un testo che aveva quasi esaurito il lungo iter procedurale, si indicano i criteri da rispettare per accertare lo stato di salute degli embrioni formati in vitro, come previsto dalla stessa Legge 40.
Non è più possibile lasciare i centri di procreazione assistita senza indicazioni operative, con il rischio che un tribunale si sostituisca a Ministero, Regione e Asl, e decida addirittura di stabilire i requisiti tecnici per i centri, come è accaduto con la recente sentenza di Cagliari. Il rischio non è solo sul piano delle competenze e della sostenibilità economica della sanità pubblica, ma anche sul piano etico: una pratica discriminatoria nei confronti delle persone disabili non può essere introdotta per sentenza, e tutti noi abbiamo il dovere di prendere posizione nel merito, ma più di tutti chi riveste ruoli di governo.
Eugenia Roccella, depu​tato del Pdl
Condivido pienamente, cara onorevole Roccella, queste preoccupazioni e le argomentazioni che le accompagnano. Ci sono, infatti, due questioni capitali in ballo. La prima è quella della difesa efficace da parte dell’Italia – e dunque del suo governo – di una legge "processata" malamente in primo grado in sede di Corte europea dei diritti dell’uomo (e non è la prima volta, come non sarebbe la prima volta che le cose vengono rimesse a posto in secondo grado, davanti alla Grande Chambre).
Beh, l’abbiamo scritto e ripetuto: non ci si può assolutamente attendere niente di meno. E non oso neanche pensare che l’assai lunga gestazione del ricorso porti a un risultato non all’altezza del compito che spetta al governo in carica. La seconda questione è quella della difesa di un principio cardine: le norme non possono farle i magistrati, magari – come nel caso della recente sentenza di Cagliari – puntando a svuotare e persino a capovolgere prescrizioni di legge.
Proprio per questo ogni ritardo od omissione nel fare quel che si può e si deve perché nessun giudice 'si sostituisca' ai poteri propri rappresenta una ferita assai grave. E credo che vada evitata per motivi sia istituzionali sia etici. Anche questo l’abbiamo scritto e ripetuto, sollecitando il governo e, ovviamente, il ministro competente a completare le ultime formalità procedurali e a emanare le nuove linee guida per la legge 40. Purtroppo finora invano.
Un ultimo pro memoria, riprendendo un passaggio di questa lettera lucida e importante, vorrei indirizzarlo a tutti coloro che continuano a spiegarci che la diagnosi preimpianto serve a 'far nascere bimbi sani'. La diagnosi preimpianto, e la conseguente selezione degli embrioni umani, serve – uso volutamente termini forti – a "buttar via" (anche solo in un "bidone" di gelo) i bimbi imperfetti o comunque sospettati di poter essere imperfetti. Cioè malati, o disabili. Come se si trattasse – tremo a dirlo – di 'prodotti' di scarto.
Ecco: quando si smetterà di nascondere una realtà di rifiuto e di discriminazione di coloro che vengono giudicati "inadeguati" dietro formule di comodo, sarà un gran giorno. E il mondo degli uomini e delle donne sarà decisamente migliore.
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