martedì 11 gennaio 2022
Il Regno himalayano, senza grandi risorse ma con obiettivi chiari, ha saputo vaccinare l’80% della popolazione sopra i 12 anni. E sta partendo con le terze dosi
La vaccinazione anti-Covid in un villaggio del Bhutan

La vaccinazione anti-Covid in un villaggio del Bhutan - Ansa/Unicef Bhutan

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L’antropologa Mary Douglas lo aveva detto e il Covid lo ha confermato: «Qualsiasi rischio corra l’umanità, a farne le spese maggiori sono sempre i più poveri». Nel caso specifico la sofferenza non è stata vissuta solo dagli infettati, ma da tutta la comunità perché l’unica strada individuata per proteggersi da un patogeno sconosciuto è stata l’antica strategia dell’isolamento e l’economia è entrata in crisi. Le fabbriche si sono fermate, gli uffici sono stati chiusi, i viaggi bloccati e milioni di lavoratori sono rimasti a casa. Per le loro famiglie il rischio di non avere più di che vivere si è fatto reale, ma non è andata per tutte allo stesso modo. Nei Paesi ricchi, poveri e impoveriti hanno trovato il sostegno dei governi che pur di evitare il collasso economico e sociale non hanno badato a spese, fino ad aumentare il proprio debito di 9mila miliardi di dollari nel solo 2020.

Non così nei Paesi più poveri dove ogni giornata passata a casa è stata una dura giornata senza stipendio. Secondo i calcoli della Banca Mondiale nel corso del 2020 l’esercito dei poveri assoluti è stato ingrossato da altri 100 milioni di persone. E quando hanno cominciato a comparire i vaccini, come “Avvenire” ha continuato a documentare, si è assistito allo stesso tipo di apartheid: boom di vaccinati nei Paesi ricchi e percentuali ridicole nei Paesi più poveri. Ai due opposti: l’Italia con l’82% e il Madagascar col 2%. Eppure, c’è un Paese a basso reddito che ha avuto un destino diverso. È il Bhutan, che a detta dei suoi governanti deve la differenza al fatto di aver posto la felicità come obiettivo economico e politico.

Con una popolazione che non raggiunge il milione di persone, il Bhutan è un piccolo territorio della catena dell’Himalaya racchiuso fra India e Cina. Non molto lontano dai suoi attuali confini, attorno al 500 avanti Cristo, visse Siddhartha Gautama, poi detto Buddha, l’Illuminato, che lasciò una profonda impronta filosofica e religiosa in tutta l’area. Colpito dalle sofferenze vissute dal genere umano, Buddha dedicò la sua vita alla ricerca di percorsi comportamentali e meditativi capaci di portare al superamento della sofferenza. E benché l’ultimo stadio proposto dal Buddha sia di tipo trascendentale, il buddhismo ha molto da insegnare anche rispetto al perseguimento della felicità che Buddha aveva inserito fra le sette condizioni per raggiungere l’Illuminazione. Non a caso di felicità si parla in numerosi documenti appartenenti alla tradizione buddista. In particolare, quella del Bhutan, che concentra nelle stesse persone cariche politiche e cariche religiose (regime che non è esente da pecche, visto che nonostante la formale libertà religiosa, organizzazioni diverse da quelle buddiste e, in due casi, induiste continuano a non ottenere riconoscimento, mentre non sono rari i casi di persecuzione contro i cristiani).

Nel monastero di Punakha sono state ritrovate delle lastre di pietra del 1635, su cui sono scolpite norme che gli studiosi attribuiscono a Ngawang Namgyal, il lama, nonché regnante, ritenuto padre fondatore del Bhutan rispondente al territorio odierno. In un passaggio si legge che «obiettivo ultimo dell’organizzazione statale di tipo buddista è quella di garantire la felicità a tutti gli abitanti della nazione. Se il governo non può garantire la felicità al suo popolo, viene meno il motivo della sua esistenza». Benché in Bhutan il perseguimento della felicità costituisca un obiettivo politico di vecchia data, in Occidente se ne è venuti a conoscenza solo alla fine del secondo millennio, a causa del clamore suscitato dall’iniziativa assunta da Jigme Singye Wangchuck, sovrano del momento. Salito al trono nel 1972 all’età di soli 17 anni, si chiese qual era il modo migliore per servire il suo popolo e invece di seguire l’andazzo dei governanti del Sud del mondo che si limitavano a scopiazzare i modelli culturali, politici ed economici occidentali, decise di interrogare i suoi sudditi. A piedi e a dorso di cavallo, il giovane sovrano attraversò tutto il Paese e scoprì che mentre la gente voleva uscire dalla miseria, nello stesso tempo non si sentiva povera. Al contrario era fiera della propria ricchezza spirituale, delle proprie radici culturali e dei forti legami sociali che stavano alla base della vita comunitaria. Il tutto rafforzato da un senso di sicurezza proveniente dal rapporto di simbiosi instaurato con la natura.

In conclusione, il giovane re venne colpito dal fatto che nonostante il livello di miseria, in certi casi molto spinto, la gente non si limitava a chieder migliori condizioni di vita, ma anche la salvaguardia del proprio ambiente, il rafforzamento della comunità e la tutela delle proprie tradizioni culturali e religiose, perché l’obiettivo non era solo l’arricchimento materiale, ma la felicità che si ottiene quando sono soddisfatte tutte le dimensioni del vivere individuale e collettivo. E memore dell’impegno assunto nel 1635 dal suo predecessore, decise di non assumere come obiettivo la crescita del Prodotto interno lordo bensì la ricerca della Felicità nazionale lorda. Decisione che venne ufficializzata per mezzo di una legge nel 1998, fino a essere inserita in Costituzione nel 2008. Con la precisazione che la felicità si raggiunge quando sono garantiti adeguati standard di vita, una buona salute fisica, alti livelli di istruzione, la piena integrità ambientale, la salvaguardia della propria cultura, una forte coesione sociale, il benessere psichico e un buon governo.

Gli aspetti citati richiamano molto da vicino gli obiettivi di sviluppo umano e gli obiettivi di sviluppo sostenibile 2030 definiti dalle Nazioni Unite. Del resto nel 2011 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò una risoluzione che invitava tutti i Paesi del mondo «a seguire l’esempio del Bhutan, a introdurre indicatori di misurazione della felicità e del benessere, a definire la felicità un obiettivo umano fondamentale». In questo contesto, quando è sopraggiunto il Covid, in Bhutan sono stati subito attivati due meccanismi. Da una parte è stato istituito un fondo di assistenza alle famiglie e alle imprese per l’erogazione di contributi e prestiti a condizioni agevolate. Dall’altra è stato inoltrato l’invito a tutti i cittadini di prestare servizio volontario all’interno di un programma governativo denominato “Guardiani della pace” teso non solo a rafforzare i servizi sanitari, ma anche i servizi di sorveglianza per il contenimento dei contagi all’interno del Paese e alle frontiere. Infine, quando si sono resi disponibili i vaccini, il governo ha cercato tutte le collaborazioni possibili con governi stranieri e organismi sovranazionali per ottenere i fondi sufficienti a potersi procurare le dosi necessarie a vaccinare la propria popolazione.

In un’intervista rilasciata il 15 dicembre alla rivista “Finance & Development”, Lyonpo Namgay Tshering, ministro delle Finanze, ha precisato che in Bhutan è stato vaccinato circa l’80% della popolazione sopra i 12 anni mentre ci si sta preparando a somministrare la terza dose. Un successo che il ministro attribuisce totalmente alla ricerca di felicità che in Bhutan rappresenta il faro di ogni scelta sociale, politica, sanitaria, ambientale ed economica.

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