mercoledì 3 dicembre 2014
​I cattolici argentini pensano al proprio Paese come a una piattaforma dalla quale le istanze del Concilio Vaticano II riprendono a circolare in tutta l’America Latina e poi nel resto del mondo. La vera scommessa sta nel far dialogare la dottrina sociale della Chiesa con un’economia che continua a ispirarsi ai principi del più stretto liberismo.
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Nel 2001, quando la società argentina fu travolta dalla crisi economica, Yuyo decise che bisognava fare qualcosa. Yuyo è il soprannome con cui è noto in patria  Luis Felipe Noé, uno dei padri dell’arte contemporanea latinoamericana. Nei suoi dipinti dell’ultimo decennio si rincorre una folla di volti che paiono sempre sul punto di precipitare nell’indistinto. «Fino a quando potremo sopportare?», si domanda questo popolo in balia delle turbolenze finanziarie. In tutto il subcontinente, e in Argentina più che altrove, “popolo” è una parola impegnativa. A Buenos Aires segna il transito dal peronismo al kirchnerismo, ma sta pure nell’insegna di quella “teologia del popolo” che, per il tramite di Papa Francesco, inizia a essere conosciuta e dibattuta a livello internazionale. Anche in Europa, dove nel frattempo si è abbattuta un’altra crisi e inizia a farsi strada la tendenza a guardare all’Argentina come a una sorta di laboratorio.  I cattolici argentini non sono sempre d’accordo sulla definizione. Preferiscono pensare al proprio Paese come a una piattaforma dalla quale le istanze del Concilio Vaticano II, non più soggette alle deformazioni ideologiche del passato, riprendano a circolare in tutta l’America Latina. E poi, chissà, anche nel resto del mondo. In ogni caso, è dal popolo che occorre ripartire. I politici ne parlano in continuazione, magari perfino in buona fede, osservava nei mesi scorsi il mensile “Criterio”, che dal 1928 rappresenta una delle voci più interessanti del laicato argentino: peccato che non sempre abbiano in mente lo stesso popolo di cui la Chiesa si prende cura, concludeva la rivista. «Ma a volte anche l’ambiente religioso è vittima di un equivoco – dice suor Theresa Varela –. Si preferisce lavorare per i poveri anziché con i poveri. In questo modo, però, si perde completamente di vista l’orizzonte della promozione umana». Originaria di Capo Verde, Hermana Theresa è conosciuta come “la suora in jeans”. La sua veste, infatti, è realizzata con il tessuto più interclassista che si possa immaginare: «Lo indossano milionari e mendicanti – commenta –, per me è il simbolo di come nessuno sia tanto ricco da non aver bisogno di qualcosa, né tanto povero da non poter donare qualcosa». Un’intuizione da cui è nata la Fundación Misión Esperanza, da lei istituita nella regione di Córdoba. Una realtà che oggi si prende cura di circa ottocento bambini, garantendo loro non solo la formazione scolastica e un’alimentazione adeguata («In Argentina la denutrizione sta diventando un’emergenza», avverte la religiosa), ma anche un sistema di valori che permetta di cambiare mentalità. In che senso? «La vera povertà è di tipo etico e culturale – risponde suor Theresa –. Se una ragazza di tredici anni lascia la scuola, è la madre stessa a suggerirle di restare subito incinta, in modo da usufruire del sussidio statale. Ecco, noi cerchiamo di rompere questo circolo vizioso».  A differenza di quanto si potrebbe pensare, la spesa sociale stanziata annualmente dal Governo argentino non si discosta molto dai parametri del welfare europeo. «Il problema – afferma l’economista Stefano Zamagni – è che più della metà delle risorse viene semplicemente ridistribuita, senza alcuna prospettiva di promozione sociale. I poveri ottengono qualche soldo e, in questo modo, continuano a essere poveri come e più di prima». Un meccanismo assistenzialista che spiega come mai, a partire dagli anni Sessanta, il cosiddetto coefficiente di Gini, che misura il livello di diseguaglianza all’interno della società, sia cresciuto in Argentina più che in ogni altro Paese (le ultime rivelazioni, relative al 2011, lo attestano sul 43,6). Zamagni frequenta Buenos Aires da una ventina d’anni, ma è nell’ultimo decennio che è diventato una figura di riferimento per il variegato universo che si riconosce nel Foro Ecuménico Social, l’organizzazione interconfessionale animata dal giornalista Fernando Flores Maio alla quale è stata affidata la sessione argentina del Cortile dei Gentili, svoltasi la scorsa settimana tra la capitale e Córdoba (diversi incontri si sono tenuti a San Marco Sierras, dove opera appunto suor Theresa Varela, che del Foro Ecuménico è vicepresidente). Proprio nel 2001 Zamagni ha pubblicato su “Criterio” un articolo che continua a essere citato e discusso ancora oggi: «Suggerivo un parallelo tra la situazione argentina del momento e il celebre discorso tenuto nel 1754 a Napoli dall’economista Antonio Genovesi – ricorda –. Oggi come allora, il rischio di declino è connaturato allo scarso interesse per quello che Genovesi chiamava “bene pubblico” e noi, in termini moderni, definiremmo “società civile”. La diseguaglianza che affligge l’Argentina non è effetto delle crisi recenti, è un problema endemico, che si trascina da almeno mezzo secolo, e che va affrontato sul piano culturale. Il Paese ha ritrovato la democrazia, è vero, ma non ha ancora affrontato il nodo della diseguaglianza».   La responsabilidad civil y ciudadana è il principale ambito di intervento del Foro Ecuménico. Nato a sua volta nel 2001, ma in incubazione già da tempo, promuove una visione etica della società, impegnandosi a diffondere i princìpi dell’economia di comunione e, in genere, dell’economia civile, con ramificazioni internazionali che vanno dall’università di Georgetown a quella di Salamanca. Il presidente attuale è padre Francesco Ballarini, missionario veronese fidei donum che per oltre vent’anni ha operato nella Diocesi di Quilmes, ricoprendo incarichi di responsabilità all’interno della Conferenza episcopale argentina. «In questa terra – sottolinea – il dialogo è un’esperienza concreta, che coinvolge cristiani di diverse confessioni, ebrei e musulmani. L’Argentina è un Paese di immigrazione, tutti sono venuti qui cercando un futuro migliore per sé e per i propri cari. Il tratto ecumenico di cui il Foro è portatore si radica in questa storia, alla quale anche l’Europa dovrebbe guardare con maggior attenzione. L’Argentina è la prova di come culture e tradizioni diverse possano cooperare tra loro evitando i conflitti e senza cadere in estremismi».  Successore del primo presidente del Foro Ecuménico, il carismatico gesuita francese padre Jean-Yves Calvez (1927-2010), padre Ballarini tiene a ribadire l’importanza del dialogo con gli imprenditori: «Spesso molto generosi nell’attività filantropica – ammette –, come posso testimoniare di persona per quanto riguarda la Casita del Niño Lourdes, che abbiamo fondato a Plátanos. Ma la vera scommessa, a questo punto, sta nel far dialogare la dottrina sociale della Chiesa con un’economia che, qui in Argentina, continua a ispirarsi ai principi del più stretto liberismo». Ricchi sempre più ricchi, poveri sempre più poveri, una classe media disorientata e minacciata dall’insignificanza. Succede a Buenos Aires, ma non soltanto a Buenos Aires. Tra i dipinti di Noé ce n’è uno, più caustico degli altri, che già nel 2004 sembra prevedere la bancarotta di Atene. «Ehi, che fine hanno fatto gli dei greci?», interroga beffardo il titolo. I volti, questa volta, non si vedono più.  Prevale il marasma e il degrado. L’Europa è avvertita: è dal popolo che occorre ripartire. Dalla società civile, dai diritti di cittadinanza, da un’economia che guardi alla persona e non solo al profitto.
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