sabato 9 luglio 2016
Le parole che ricostruiscono
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L’autentica esperienza religiosa è un dono per tutti, anche per chi la fede non ce l’ha, o ne ha una diversa. Al di fuori di questo dono gratuito, c’è solo barbarie, idolatria, auto-inganno, consumismo emotivo, ricerca di potere e di denaro. In questo nostro tempo di profonda crisi delle religioni e delle fedi, dobbiamo tornare a parlare bene dello spirito religioso, a dirne buone parole, a bene-dirlo. È solo la buona spiritualità che può curare le malattie e le perversioni delle religioni. Un mondo senza fedi e religioni sarebbe soltanto un luogo infinitamente più povero. Perderemmo molte parole per raccontarci le cose più belle della nostra vita. Quelle distillate in quell’alambicco speciale che si trova nella parte migliore dell’animo umano, che si attiva quando sente il bisogno di alzare lo sguardo per cercare il senso profondo del mondo, della vita, della morte – o almeno per provarci. La nostra cultura ha già cancellato molte di queste parole, anche perché quasi mai le religioni, con le loro istituzioni e i loro culti, sono all’altezza della parte migliore dell’uomo. Finiscono quasi sempre per impossessarsi della vocazione spirituale naturale della persona, promettendo paradisi che non possiedono, salvezze a buon mercato nei saldi di fine stagione, promesse troppo banali per essere vere. Molte tra le nostre parole più belle e grandi, donateci dalle fedi, sono state svilite e a volte distrutte dalle stesse religioni, per mancanza di generosità, di gratuità, di grazia, e perché i profeti non sono ascoltati.
È questo il primo significato di quell’universalismo che, con le sue contraddizioni, ispira l’umanesimo biblico: «Verrà un giorno in cui il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: "Venite, saliamo sul monte del Signore, … perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri"». (Isaia 2,2-3). Non si va sul "monte del Signore" per diventare devoti dei padroni del tempio, ma per conoscere le "vie e i sentieri" della vita. I profeti sanno che le religioni si trasformano in disumanesimo quando cominciano a contare i passaggi all’interno dei loro templi, a indire censimenti, a volere una salvezza solo propria contro quella degli altri, quando dimenticano che la rivelazione (torah) è un bene che può essere goduto solo insieme a tutti e nella concordia (2,4). È dentro questo abbraccio universale della terra che non esclude nessuno, in questo sguardo ampio benevolente, che ci raggiunge una delle sorprese più belle incastonate nel libro di Isaia. E come un arcobaleno nel cielo ancora buio, ci imbattiamo in un gioiello luminosissimo della letteratura umana: «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci. Un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra» (Isaia 2,4). E qui dovremmo solo tacere, o soltanto pregare. Isaia viveva in un mondo molto diverso, dove gli utensili di lavoro erano trasformati in armi da guerra («Con le vostre zappe fatevi spade e lance con le vostre falci»: Gioele 4,10). Ma un giorno vide qualcos’altro, e lo scrisse. Scrisse ciò che non vedeva, e lo fece perché noi oggi potessimo leggerlo. Il profeta è una voce che vede anche i desideri profondi, la vocazione ancora inespressa dell’umanità. E ce la dona dicendola, perché possiamo diventare anche noi quello che ancora non siamo. Splendida allora è stata l’ispirazione di chi ha voluto porre queste parole di Isaia nel muro di fronte al palazzo dell’Onu a New York. Le parole dei profeti sono grandi perché in-finite, incompiute. Sono sempre di fronte a noi, come una chiamata costante a far di tutto per farle diventare un po’ più storia, vita, carne.
Nel mondo che Isaia aveva di fronte, la corruzione dei capi del popolo, con i loro culti idolatrici e quindi l’abbandono del povero, producevano (come continuano a produrre oggi) carestia e sventura per tutti. Dal Paese scompare «ogni genere di beni, ogni risorsa di pane e ogni risorsa d’acqua, il prode e il guerriero, il giudice e il profeta, l’indovino e l’anziano, il comandante di cinquanta e il notabile, il consigliere e il mago astuto e l’esperto incantatore» (3,1-3). Scompaiono gli indovini e i cattivi consiglieri, ma soprattutto scompaiono i saggi e i profeti. Restano, nel migliore dei casi, soltanto bande di giovanotti incapaci: «Io metterò dei ragazzi come loro capi, dei monelli li domineranno» (3,4). Quando i popoli si smarriscono e perdono il filo d’oro della saggezza che ha generato (quasi sempre nel grande dolore e nel troppo sangue) patti, costituzioni, etica, buone leggi, sprofondano in profondissime trappole di povertà, finiscono dentro circoli viziosi e perversi. Le carestie e le grandi crisi sono dapprima il frutto del non ascolto dei profeti e delle persone oneste, e poi generano a loro volta la fuga e l’espulsione dei profeti e dei saggi. Gli uomini e le donne migliori non sono più attratti dal bel mestiere della politica, e così lasciano strada libera a chi cerca il potere solo per interessi personali o di parte. E il circolo perverso si chiude, la trappola diventa perfetta. Nei casi più gravi – come quelli descritti qui da Isaia – la crisi è talmente profonda e generalizzata da tener lontano dai ruoli di governo anche i delinquenti, non essendoci più nulla da depredare e spartire se non la "rovina": «Uno afferrerà il fratello nella casa del padre: "Tu hai un mantello: sii nostro capo; prendi in mano questa rovina!". Ma lui si alzerà in quel giorno per dire: "Non sono un guaritore; nella mia casa non c’è pane né mantello. Non ponetemi a capo del popolo!"» (3,6-7). Rimangono soltanto gli sciacalli: «Voi avete devastato la vigna; le cose tolte ai poveri sono nelle vostre case» (3,14).
Ed è qui, quando la speranza civile muore, che al profeta resta solo il suo canto, la sua preghiera di lamento sopra il suo popolo: «Popolo mio, le tue guide ti traviano, distruggono la strada che tu percorri» (3,12). Il popolo diventa "mio popolo". Di Dio, e di Isaia. È anche questo il mestiere del profeta: saper piangere per la rovina del proprio popolo, delle comunità, delle persone, per la nostra rovina, per la tua, per la mia. Quando neanche Dio è ascoltato, quando le sue parole di invito al pentimento e alla conversione restano inattese e oltraggiate, il profeta ha un’ultima risorsa: può piangere per il suo popolo. Può intonare il suo canto di lamento, può mescolare le sue lacrime con quelle della gente schiacciata. E qualche volta nella storia è accaduto il miracolo che qualcuno abbia raccolto il pianto e il grido dei profeti, più delle loro parole – non c’è parola più potente di un grido: il Golgota ce lo ricorderà sempre. È accaduto quando dopo le guerre e le grandi follie collettive, poche donne e pochi uomini, a volte uno solo, in quel pianto-lamento-urlo hanno sentito una vocazione. E poi si sono messi a ricostruire città, comunità, imprese, Paesi interi. Quando lo hanno fatto, al loro fianco c’era Isaia, anche se non lo sapevano. La solidarietà delle lacrime è una forma altissima di amore. È tipica dei profeti, ma la vivono anche artisti, poeti, registi, musicisti, scrittori, e tante donne e molti uomini che continuano ad accompagnare le rovine degli altri solo con le lacrime, dopo aver esaurito ogni altra risorsa. Molta poesia e letteratura umana – anche quella rimasta nascosta nei diari e nelle lettere – è un costante e profondo esercizio della solidarietà del pianto e del lamento. Un grande dono dell’arte vera è riuscire a vedere le vittime della storia, reali o create dal loro genio (e quindi altrettanto reali); e poi avvicinarle, guardarle veramente, farsi loro compagno di strada e di lacrime. "Vedendo" Cosette e Jean Valjean, Renzo e Lucia, Victor Hugo e Alessandro Manzoni ci hanno fatto vedere meglio e di più i miserabili della terra. La creazione dei loro personaggi ci ha donato nuove parole per capire le vittime attorno e in noi, e qualche volta amarle di più. 
Questo sguardo generativo dei grandi artisti, quando è onesto e nasce nel dolore (e per questo è molto raro), non ama il mondo meno di chi lo serve ogni mattina accudendo e servendo familiari, amici, pazienti. Amori diversi, ma tutti preziosi ed essenziali per rendere più vicino l’avveramento delle parole dei profeti, o quantomeno della sua possibilità. Ecco perché i profeti hanno un immenso bisogno di noi, perché sono degli eterni indigenti delle nostre mani, del nostro cuore, della penna e dell’anima degli artisti. C’è una amicizia tra le parole più vere sulla terra. Sono tutte sante e tutte profane. Non avremmo gli strumenti morali per capire veramente le parole dei profeti, di Giobbe, di Gesù, senza i tanti poeti e artisti che con i loro carismi hanno allargato il repertorio dell’anima del mondo, facendoci capaci di udire ultrasuoni e di allargare lo spettro dei colori visibili dall’occhio della nostra anima. Domani, tra cento, mille anni, gli umani potranno capire meglio e di più le antiche parole bibliche grazie ai nuovi artisti, filosofi, alle donne e agli uomini spirituali, che continueranno a donare parole, suoni, colori. I suoni e i colori dei profeti si spegneranno solo quando l’ultimo uomo cesserà di dare la propria voce alla loro parola. Ma la Bibbia potrà sempre rinascere il giorno in cui qualcuno riconoscerà il proprio roveto ardente in quello di Mosè, leggerà il suo nome in quello di Adam, o si scoprirà Noè quando nel diluvio del suo tempo inizierà a costruire un’arca di salvezza. E comincerà a raccontare questa storia a qualcuno che la vorrà ascoltare. l.bruni@lumsa.it
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