martedì 9 giugno 2009
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In Vaticano venne recepita la legislazione razziale italiana del 1938? Sembra insinuarlo Alberto Melloni in un articolo pubblicato nei giorni scorsi sul Corriere della Sera, nel quale recensisce un libro sullo Stato della Città del Vaticano, che peraltro uscirà solo a fine mese. L’articolo contiene varie inesattezze, come quella – peraltro veniale – secondo cui lo Stato vaticano, istituito il 7 giugno 1929 a seguito dei Patti lateranensi, avrebbe una superficie «di pochi chilometri quadrati», mentre in realtà il territorio vaticano risulta meno di mezzo chilometro quadrato (per la precisione 0,49 kmq); un territorio volutamente ridottissimo: solo quanto bastasse – come ebbe a dire Pio XI ai parroci romani l’11 febbraio 1929, lo stesso giorno della firma dei Patti lateranensi – a sostegno della sovranità e a garanzia dell’indipendenza della Santa Sede, come in san Francesco «quel tanto di corpo che bastava per tenersi unita l’anima». Lo stesso dicasi per il richiamo al cosiddetto «scandalo Ior», di cui nel libro in questione non si direbbe nulla. E in effetti questo Istituto con lo Stato vaticano non ha niente a che vedere, trattandosi di una istituzione che appartiene invece al novero degli enti centrali della Chiesa. Ma l’affermazione secondo cui, nel libro citato, «la recezione per le leggi razziali avrebbe meritato una disanima che il volume non fa», è davvero singolare e poggia su un duplice, erroneo presupposto. Il primo è quello che riguarda la recezione automatica, nell’ordinamento giuridico del piccolo Stato, della legislazione italiana. Invero la legge vaticana sulle fonti del 1929, ora sostituita da una nuovissima di Benedetto XVI, previde sì la recezione di leggi italiane, ancorché non di tutte; ma solo delle leggi in quel momento vigenti in Italia: leggi in buona parte ancora di origine liberale, come il codice civile Pisanelli del 1865 e il codice penale Zanardelli del 1889. La recezione riguardava, dunque, fonti normative ben cognite al legislatore vaticano e, quindi, non contrastanti con valori e principi incompatibili con la dottrina cattolica. Si trattò, per dirla col linguaggio tecnico dei giuristi, di un ampio – ma non integrale – rinvio fisso o materiale al diritto positivo italiano, e non di un rinvio mobile, cioè aperto alla recezione delle leggi che nel tempo sarebbero intervenute, come appunto quelle in materia razziale. Tant’è vero che in Vaticano non furono mai recepiti, ad esempio, il codice penale fascista del 1930 o quello civile del 1942. L’altro errore è non considerare che la base dell’ordinamento giuridico vaticano è costituita dal diritto canonico, il quale è strutturalmente chiuso alla recezione di valori giuridici esterni che fossero in contrasto con il diritto divino, come diceva il codice canonico del 1917 e come chiaramente ripete oggi il can. 22 del codice canonico vigente. Un analogo stesso filtro era poi nella legge vaticana sulle fonti del diritto del 1929 (così come in quella ora in vigore), la quale all’art. 3 disponeva che le leggi ed i regolamenti emanati dal Regno d’Italia fino a quel momento fossero osservati in Vaticano in via suppletiva, sempre che «non sieno contrari ai precetti di diritto divino né ai principi generali del diritto canonico». Dunque un doppio filtro, sicché una legislazione odiosa e certamente in contrasto con il diritto divino, quale fu quella che l’Italia si diede nel 1938, non avrebbe comunque potuto trovare ingresso nell’ordinamento vaticano. Melloni dirà – come si può desumere da quanto afferma nell’articolo – che queste sono «tecnicalità». Sarà pure: tuttavia esse toccano una sostanza che i giuristi, ma credo anche gli storici, non possono ignorare.
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