Le gambe molli dell'autocrate Erdogan
giovedì 16 marzo 2017

La prova di retorica aggressiva e muscolare che Recep Tayyip Erdogan, presidente turco, sta offrendo in questi giorni rispetta un copione consueto dei regimi autoritari prossimi al tracollo. Nessun analista dispone della fatidica 'sfera di cristallo' per leggere il futuro, ma diversi indizi e qualche corposa prova indicano che la Turchia – come, prima o poi, tutte le società che svoltano in maniera chiara verso l’autoritarismo – ha intrapreso un percorso di declino economico che comincia a influenzare in maniera sostanziale le scelte di politica internazionale. I dati economici sono chiari in questo senso. L’erdoganomics non sta mantenendo le promesse. Il tasso di crescita del Pil, benché positivo, è inferiore rispetto al passato. In breve, la crescita ha cominciato a rallentare. Inoltre, essa è guidata principalmente dai consumi interni.

La nota particolarmente dolente, infatti è la debolezza degli investimenti privati nei settori manifatturieri. Non a caso, il peso di questi nel Pil è di gran lunga inferiore a quello registrato negli anni Novanta del secolo scorso e nei primi anni duemila fino alla crisi globale del 2008. L’inflazione è attestata intorno all’8% annuo, ben al di sopra di un tasso desiderabile, e il tasso di disoccupazione è in crescita oramai dal primo trimestre del 2016 e ha raggiunto il 12,7%. Il dato più elevato a partire dal 2010. Al fine di bilanciare le tendenze negative, la spesa pubblica è in aumento, e in alcuni frangenti è stata finanziata, con tasse più elevate al fine di evitare una crescita eccessiva del debito pubblico. Dal punto di vista valutario, la lira turca si è svalutata nei confronti dell’euro. E se da un lato tale svalutazione può favorire le esportazioni future, dall’altro essa determina anche costi più elevati per le imprese importatrici, impedendo allo stesso tempo anche la riduzione dell’inflazione.

Uno dei settori che ha particolarmente sofferto le crisi e i conflitti regionali in corso e l’esacerbata violenza politica interna è stato chiaramente il settore turistico che ha visto crollare le visite dal resto del mondo e in particolare dai Paesi europei. I dati economici, insomma, sono oggettivamente preoccupanti. Ed è questo che porta a dire che il declino economico tipico delle autocrazie sembra aver avuto avvio. Erdogan e i membri del suo governo sono del tutto consapevoli che il deterioramento della situazione economica potrebbe far evaporare il sostegno al governo e si ritrovano quindi costretti a trovare argomenti per rafforzare il proprio consenso interno. In questa luce, la crisi turco-olandese e le minacce di denunciare intese con l’Unione Europea assumono contorni più chiari, come manifestazione di quella che si definisce diversionary foreign policy tipica delle autocrazie in crisi. Nemici e avversari esterni divengono naturalmente gli obiettivi di retorica e propaganda nazionaliste se non di vere e proprie dispute militari. La domanda da farsi è, allora, fino a dove si spingerà Erdogan. È purtroppo lecito prevedere che nel momento in cui i dati economici continueranno a peggiorare e il governo di Ankara si ritroverà ancora più debole, Erdogan e i suoi insisteranno in maniera più decisa nella limitazione della libertà dei propri concittadini da un lato e in un’aggressiva retorica internazionale dall’altro. E che tutto ciò sarà favorito dall’inazione dei Paesi europei.

A ben guardare, infatti, l’unica vera forza di Erdogan in questo momento è la debolezza e l’incapacità della Ue nel formulare una politica estera e una politica di sicurezza comuni. È questo, infatti, che consente al governo turco di rimandare scelte che potrebbero risultare tragiche se Erdogan volesse a tutti i costi mostrarsi credibile di fronte alla comunità internazionale. In ogni caso la dilazione non sarà lunga. La retorica antieuropea, infatti, oltre a peggiorare le relazioni diplomatiche non favorirà nel contempo il mantenimento e la prosperità dei rapporti economici aumentando la velocità con la quale il declino economico turco si concreterà. L’auspicio è che la spirale disastrosa che si è ormai avviata venga fermata prima che l’aggressività turca da verbale e diplomatica si trasformi in militare. In questo contesto, ancora una volta i Paesi europei sono chiamati a dare una risposta credibile comune. Quella risposta che, sino a oggi, risulta 'non pervenuta'.

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