sabato 24 ottobre 2015
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Il capitale non dorme mai. Sembra un efficace slogan marxiano, sulla linea del celeberrimo 'proletari di tutto il mondo, unitevi'. Ma, secondo numerosi analisti, sta diventando una realtà di oggi, benché le parole chiave del padre del comunismo moderno si siano assai logorate. Numerosi esperti ritengono, infatti, che l’unione di economia di mercato liberale e di impetuoso sviluppo tecnologico stia divorando tutto il tempo disponibile dei lavoratori di inizio XXI secolo. Non è soltanto il banale 'le email ti raggiungono ovunque e a qualunque ora'. Si andrebbe affermando piuttosto un pervasivo sistema di colonizzazione delle nostre giornate da parte delle istanze del sistema produttivo (in senso lato, dato che ormai prevale la produzione immateriale, che spesso passa per via telematica, rispetto alla vecchia catena di montaggio, pur non scomparsa).   In questa logica, che si autoalimenta, l’orario non è limitato dalla presenza fisica in ufficio, ma si prolunga con gli strumenti di comunicazione sempre connessi, e la stessa idea di distinguere tempo di lavoro, tempo familiare, tempo di cura o di svago sfuma in un’indistinta bolla '24/7', così come si intitola un recente volume dello storico americano Jonathan Crary (pubblicato da Einaudi). È stato proprio questo svelto pamphlet a innescare anche in Italia una discussione accesa e intensa sul fenomeno.  Ventiquattro ore su sette giorni di coinvolgimento per l’azienda o la professione, niente più sera né weekend neppure la (una volta) sacra domenica. Anzi, dice Crary, l’ultima trincea a essere espugnata sarà il riposo notturno: diventeremo vittime complici di un’'insonnia efficiente'. Svegli noi e, si presume, svegli i nostri 'controllori'. E i nostri concorrenti. Nel momento in cui la 'frontiera' viene valicata, in cui non è più un’eccezione che qualcuno rinunci alla rigida compartimentazione delle proprie attività per raggiungere mete professionali o retributive superiori, la marea sale per tutti. Anche per restare al livello relativo di partenza e non essere sopravanzati da altri, bisogna adeguarsi al trend generale. A quel punto non ci si può più permettere di 'staccare'.   All’inizio, forse, può essere una sensazione inebriante di essere nel 'flusso' efficientistico, dentro una corsa verso il futuro, proiettati nella ipermodernità. Poi, però, subentrano i (pesanti) effetti collaterali. Soprattutto in termini di compressione di ogni altra esigenza personale. Non è, peraltro, una novità che il tempo sia diventata una delle risorse più scarse e preziose, schiacciati come siamo tra richieste e offerte dello stesso sistema economico che, secondo gli stessi analisti post-marxiani, da una parte ci chiede di essere suoi docili esecutori e dall’altra ci euforizza con le sue opportunità crescenti affinché diventiamo voraci consumatori, indispensabili per la continuazione del meccanismo.  C’è qualcosa che non va, però, in questo ritratto di una società in perenne fibrillazione, innaturalmente stressata, che rischia di sacrificare i suoi ritmi di sopravvivenza per una rincorsa che non raggiunge mai la sua meta. Soprattutto se si considera l’Italia, qualche numero è sufficiente a modificare tale percezione. I nostri concittadini tra i 15 e i 64 anni, cioè i primi candidati a perdere il sonno per il lavoro a ciclo continuo, hanno un’occupazione soltanto per il 56,5% del totale. Su circa 60 milioni di abitanti, coloro che hanno un impiego registrato dalle statistiche dell’Istat sono 22 milioni e mezzo, poco più di un terzo. Certo, nella popolazione totale sono compresi bambini e ragazzi fino a 15 (che per legge non possono lavorare) e anziani over 65, in parte in pensione o comunque più difficilmente attivi su un orario pieno. Di fronte a questi dati, la prima (e superficiale considerazione) è che, probabilmente, pochi lavorano troppo e molti non lavorano abbastanza, considerando anche l’alto tasso di disoccupazione. La cifra dell’11,9%, giova ricordarlo, riguarda tuttavia coloro che cercano un impiego nella fascia di età 15-64 anni, mentre un 35,6% di questo gruppo centrale della popolazione è inattivo nel senso che non si affaccia nemmeno sul mercato del lavoro.   Il fenomeno dei Neet, i giovani fra i 15 e i 29 anni che non studiano, non sono in fase di addestramento professionale né hanno un’occupazione è una preoccupante particolarità italiana, raggiungendo la ragguardevole cifra di 2,2 milioni. Sono ragazzi annoiati, poco motivati, forse sfiduciati da un contesto che tende a escluderli; qualcuno potrebbe essere anche un felice rampollo di genitori disposti a mantenerlo in una giovinezza che se non è dorata, risulta almeno al riparo dallo stress del superlavoro. Che cosa ci può suggerire tutto questo? Che, pur senza avere lo sguardo del sociologo, capace di analisi complessive, è chiaro che a prendere la ribalta è spesso una fetta non maggioritaria della società, forse la più dinamica sotto qualche aspetto e certo la più affluente e influente. Ma ciò oscura situazioni strutturali e mutamenti sotto traccia che sono ben solidi e reali, quotidianità consueta per molti. Non sarebbe un problema se la sottovalutazione si limitasse ai mass media e alla loro scelta di illuminare soltanto alcuni spicchi ritenuti più interessanti della società. Il punto è che tale copertura selettiva dell’informazione e di certa saggistica orienta anche la percezione comune e, cosa maggiormente rilevante, l’agenda politica.  Per fare solo un esempio, il vasto insieme dei 'pensionati' contiene una gamma assai variegata di figure per quanto riguarda l’utilizzo del tempo e la disponibilità a fornire un contributo alla collettività. C’è chi è attivamente impegnato nel volontariato o in attività civiche e chi sarebbe disponibile a farlo se fosse sensibilizzato e sollecitato, avendone tutti le risorse personali necessarie. C’è chi è escluso dai principali circuiti sociali, sia per deprivazione economica o culturale, sia per condizioni fisiche. E c’è chi vive una condizione individualistica che ancora lo collega alle fasce più giovani della popolazione per scelte di vita e consumi. Il capitale non dorme mai, ma in tanti, è dibattito di questi giorni, vorrebbero abbandonare il mondo del lavoro con un pensionamento anticipato anche a prezzo di una riduzione dell’assegno mensile. Si può ipotizzare che siano lavoratori per nulla schiacciati dal nuovo ciclo produttivo 24/7, eppure semplicemente stanchi di un’occupazione faticosa e ripetitiva, sebbene limitata alle canoniche otto ore, e qualche volta anche meno. Nessuno li chiama la sera o nel weekend, eppure hanno il desiderio di uscire dagli obblighi di un impiego con le sue regole e i suoi oneri. Le aziende sembrano perfino disposte ad andare loro incontro, forse perché hanno bisogno di personale pronto a entrare in una dimensione di diversa flessibilità, mentre tantissimi altri dal lavoro restano comunque esclusi.   Si potrebbero citare anche il caso delle mamme equilibriste iperconnesse, in bilico tra biberon in consiglio di amministrazione e rinuncia totale all’incarico per amore della famiglia, casi eccezionali che diventano storie raccontatissime, capaci di dividere l’opinione pubblica e di oscurare il fatto che le gran parte delle donne sono sottooccupate (perlomeno fuori casa) e sotto-pagate... In ogni caso, il panorama sociale sembra troppo mosso perché possa venire cristallizzato in un selfie, pur reale e meritevole d’attenzione, di manager, professionisti e impiegati persi nel vortice di un lavoro privo di confini temporali. E sarebbe un errore governare la società basandosi soltanto su di esso, per quanto esso risulti accattivante e preoccupante insieme.
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