La potenza della memoria, la speranza del futuro passano dal dare un nome e una tomba ai morti sulle rotte migratorie. Questo è il messaggio che va dritto al cuore delle celebrazioni del 3 ottobre, Giornata nazionale della memoria dei migranti e dell’accoglienza, organizzate dal Comitato che prende il nome da questa data. Messaggio lanciato dal luogo diventato simbolo nel mondo delle tragedie migratorie del secolo: Lampedusa.
Non si è spento nella vita dei superstiti e dei familiari delle vittime il dolore per il naufragio del 3 ottobre 2013 che provocò 368 morti e 20 dispersi, quasi tutti eritrei, e per quello meno noto dell’11 ottobre in cui persero la vita 268 siriani, tra cui 60 bambini. Noi invece siamo diventati indifferenti dopo la commozione iniziale che portò il governo di allora a varare l’operazione “Mare nostrum” per un anno in cui Marina militare e Guardia costiera salvarono oltre 100mila esseri umani. Il ritiro della successiva missione Ue dalle acque del Mediterraneo centrale portò all’arrivo delle navi private delle Ong, il resto è storia recente.
A partire dall’anno successivo a oggi, secondo i dati della Fondazione Ismu, ci sono stati oltre 30mila morti in mare di cui non sappiamo nulla. Dunque è necessaria un’operazione di verità e ricostruzione dell’identità delle vittime. Perdere tempo e denaro dietro ai morti è inutile, si può obiettare. Nessun Paese europeo, se non interviene la magistratura, dispone il recupero dei corpi. E abbiamo la banca dati solo dei morti nei due naufragi della parte finale del 2013. Ma questa lacuna contraddice l’intento proclamato dai governi Ue e da Bruxelles di colpire i trafficanti di esseri umani: se non conosciamo l’identità dei morti e la loro provenienza come possiamo trovare i colpevoli?
Senza verità non c’è giustizia. Del resto, i mille arrivi nelle ultime 48 ore certificano impietosi il fallimento delle politiche di chiusura della Fortezza Europa.
Così, quando parliamo di sbarchi o, meglio, di arrivi, non accontentiamoci di aride percentuali e di segni più o meno rispetto all’anno precedente. La notizia è il numero di morti e dispersi che nel Mediterraneo erano 1.450 a fine settembre 2024. Dietro i numeri, è stato ribadito con forza in questa settimana a Lampedusa, dobbiamo imparare a cercare l’umano scavando sui social, ascoltando i racconti dei sopravvissuti e degli operatori delle organizzazioni umanitarie per scoprire le tragedie dimenticate in diverse parti del globo di genitori che dopo anni non sanno più nulla dei propri figli. Di mogli e mariti che non sanno che fine abbia fatto la persona che ha messo in gioco la propria vita per dare un futuro diverso alla sua famiglia. Di bambini orfani che senza un certificato di morte del padre o della madre non potranno venire adottati né uscire da un campo profughi – uno dei non luoghi più terribili del pianeta – per ricongiungersi a un familiare emigrato.
Ci sono insomma vite sospese, bloccate. Senza un certificato, la burocrazia resta immobile. Senza una tomba o una lapide non si riesce a voltare pagina e provare a immaginare un futuro.
Tra gli eventi organizzati dal Comitato 3 ottobre sull’isola c’era la raccolta dei tamponi dei familiari delle vittime dei due naufragi effettuati dal Labanof della professoressa Cristina Cattaneo con il Commissario per le persone scomparse, per incrociare i dati e trovare le tombe su cui piangere. È una pratica complicata, eppure basterebbe una direttiva europea che armonizzasse le pratiche degli Stati membri a costi quasi nulli per dare nome e dignità ai morti e pace ai vivi. Una petizione al Parlamento sul sito del “Comitato 3 ottobre” la chiede. Serve per domandare alle forze politiche europee di non dividersi davanti alla morte e alla pietà.
Lampedusa è diventata per molti familiari la tomba su cui piangere il figlio o il coniuge morto. Ha una funzione di memoria e di consolazione potente che la politica forse teme perché davanti al dolore più lacerante l’umana compassione fa cadere i muri. Ma il 3 ottobre a Lampedusa è diventato anche un messaggio di coraggio e buon senso lanciato dall’ultimo lembo di Europa più vicino all’Africa per ricordare a tutti che i diritti dei più deboli non sono mai diritti deboli.