venerdì 28 dicembre 2012
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Il forte intervento col quale il cardinal Angelo Scola ha aperto l’Anno Costantiniano ha riacceso (poteva essere diversamente?) il dibattito sulla “laicità”. In alcuni casi la tesi sostenuta dall’arcivescovo di Milano – lo Stato è compiutamente laico solo quando riconosce un assoluto primato alla libertà religiosa – è stata intesa correttamente: solo prendendo sul serio la libertà religiosa, come esigenza personalistica primaria, lo Stato evita il rischio di degradarsi in «Stato etico», riconoscendo i suoi limiti intrinseci, quelli di una struttura che esiste per essere al servizio del bene dell’uomo e non per determinare autoritativamente dall’alto i valori che gli uomini dovrebbero promuovere o i disvalori che essi dovrebbero combattere. Spetta infatti non allo Stato, ma alle fedi religiose, così come ai sistemi valoriali “laici”, individuare il bene dell’uomo; compito dello Stato è invece quello di rispettare le prime così come i secondi, come gli unici “luoghi” in cui può maturare un autentica percezione dei valori umani fondamentali. La densa esemplificazione delle dimensioni costitutive dell’esperienza antropologica fatta dal cardinale Scola (la nascita, il matrimonio, la generazione, l’educazione, la morte) appare, pur nella sua brevità e apparente semplicità, decisiva: lo Stato non deve entrare in questi ambiti né a maggior ragione può arrogarsi il diritto di qualificarli, riqualificarli o manipolarli, perché non si tratta di ambiti «politici», ma esistenziali, e quindi, come oggi si usa dire, «non negoziabili». È evidente, per converso, che in quegli ambiti che sono invece strettamente politici (quelli, per usare una formula riassuntiva, dell’organizzazione economico– sociale della comunità) non esiste una competenza specifica né delle religioni né dei sistemi valoriali laici; di conseguenza le decisioni che vanno assunte in questi ambiti rientrano nella competenza dello Stato e in merito ad esse la negoziazione non solo è opportuna, ma inevitabile. Da parte di alcuni commentatori questo riferimento di Scola alla libertà religiosa non è stato colto nell’unico modo in cui esso doveva essere colto, cioè nella sua portata “liberante” nei confronti di indebite pretese statuali, bensì in modo incredibilmente riduttivo. La libertà religiosa, secondo le parole usate da Stefano Rodotà ( Repubblica del 13 dicembre, pagina 44 ), dovrebbe essere intesa «come una libertà che si misura con tutte le altre»; non avrebbe alcun primato, perché in essa si riassumerebbero solo dei «punti di vista», che non andrebbero mai assolutizzati, per non cadere nel fondamentalismo. L’errore in cui cade Rodotà (non certo da oggi) consiste nel confondere i valori politici (che ovviamente non vanno mai assolutizzati) con i princìpi antropologici che orientano l’uomo verso il bene: sono questi, e non quelli, che vanno ritenuti veri e propri «assoluti». Lo spiega con pazienza Enzo Bianchi, in un articolo che sul medesimo quotidiano ha affiancato quello di Rodotà, nel quale si ribadisce una verità elementare (ma non banale): «L’umanità è una» e tutti gli uomini sono chiamati a essere «fedeli alla terra e all’umanità, vivendo e agendo umanamente, credendo nell’amore». Questo non è un «punto di vista», ma un principio assoluto, sia dell’etica che della politica. Non va accusato di relativismo chi, muovendo da tale principio, riconosce che diverse sono le vie per perseguire il bene umano (e che qui sta il compito più difficile di uno Stato laico, quello di tutelarle tutte), ma analogamente non va considerato alla stregua di un ottuso dogmatico chi proclama che il bene è unico e che proprio per questo ha senso parlare di uguaglianza e di fraternità umana. Quei “no” in ambito etico e bioetico del Magistero della Chiesa (ma non di esso soltanto) che tanto indignano Rodotà, così come il “no” al primato della scuola promossa dallo Stato sulla scuola liberamente promossa, non sono affatto segno di dogmatismo, ma sono dei grandi “sì”, frutto di una riflessione seria e appassionata sul bene dell’uomo, che non può essere perseguito manipolando la vita, indebolendone la tutela o alterando l’identità della famiglia. Non sono in gioco princìpi confessionali, ma valori antropologici fondamentali. Lanciare anatemi e accuse di fondamentalismo è uno sterile esercizio ideologico: torniamo a riflettere, tutti insieme, sulla verità delle cose.
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