venerdì 6 novembre 2015
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Caro direttore,non sono d’accordo con il signor Prezioso di Padova e tantomeno con la risposta che lei ha dato su “Avvenire” del 2 novembre 2015 – «Uccidere il ladro? Ogni vita è sacra (no ai profeti della “lotta continua”)». Nulla da spartire con gli ignoranti (presunti) che seguono i banditi da Far West e meno ancora con chi identifica i Martiri che han versato la vita per la fede in Cristo con chi difende (se riesce) la propria vita dai saccheggiatori di mestiere. Semmai è convinzione diffusa che le leggi e la Magistratura tutelino i delinquenti mentre i cittadini miti di cuore si ritrovano a dover contare le inferriate alle finestre e le migliaia di denunce per furto ammonticchiate e (per la quasi totalità) inevase sulle scrivanie delle Forze dell’ordine. Ho assistito al saccheggio nell’appartamento al piano rialzato del mio condominio alle 11 di un mattino feriale. Il furto è uno stupro, direttore, che nulla risparmia, neppure le cosucce da donna lasciate nel bagno. Ed è stato così, qui dove vivo, in tutti gli altri quattro appartamenti devastati in anni recenti nel primo pomeriggio sino al quarto piano. Si deve pregare per chi ruba? In senso lato è catechesi anche di mia madre. È vero però che quando visito il Cimitero prego su tombe dismesse di persone conosciute probe e dimenticate. I farabutti non li ho in testa. Quando li ho in testa, ricorro alla misericordia dell’Antico Testamento e prego perché smettano di rubare, violare, terrorizzare per facile interesse. La vittima è il derubato, non il ladro. Per il quale taluno, migliore di me, dileggia la galera, invoca il lavoro redentore e persino il salario di cittadinanza come se il sopraffatto non fosse stato magari disoccupato, cassintegrato, scartato a sua volta. La misericordia non sta proprio nel morire in casa propria per consentire al profanatore di farla franca e darsela a gambe in nome della Croce di Gesù Cristo, come lei pensa e scrive con enfasi. Va usata per l’offeso, anche se perde la testa. Poi viene il rammarico per il secondo, specie se immigrato e mantenuto. Fatta eccezione per i coltelli da cucina, nessuna delle persone che io conosco ha un’arma in casa, confessa invece di essere esistenzialmente impreparata a sparare pugni o pallottole, neppure nel confessionale. La saluto cordialmenteMario Rigo, Rho (Mi)Il furto in casa come “stupro” dell’intimità di persone, famiglie, storie. Vero, verissimo: lo so per dolorosa esperienza diretta, caro e gentile amico. E so anche che ogni tipo di furto – anche lo scippo o il borseggio per strada – un po’ o tanto lo è. Ma per questo dovremmo essere pronti a “uccidere il ladro”? Per questo dovremmo applaudire i politici che lodano e assolvono “a prescindere” chi fa giustizia da sé? Non penso che le sue umanissime preoccupazioni preludano a questo, e i suoi pensieri in chiusura di lettera me lo confermano. Per quanto mi riguarda, da cittadino, voglio governanti centrali e amministratori locali che la smettano una buona volta di pontificare "dopo" il danno, come se tutto fosse sempre colpa di un destino cinico e baro e di “cattivi” per natura o d’importazione. Voglio che chi ha il potere e il dovere di farlo agisca "prima", dando efficienza alla prevenzione del crimine, che non è un modo di dire, ma un modo di fare. Cioè è presenza e vigilanza concreta sul territorio, ed è certezza della legge, della pena e dell’umanità di regole e sanzioni. Perché una Comunità civile non si vendica, ma si preserva per essere migliore. E non accetto che mi si dica che questo «non si riesce a fare».Da cristiano, poi, non posso acconsentire al male. E questo, caro signor Rigo, non vuol dire rassegnarsi a soccombere, ma l’esatto contrario: significa lottare ogni volta che serve, mettendo al primo posto i piccoli, i deboli, gli inermi. E significa – insisto – innanzitutto lottare per non dare la morte e per non farsi morte, anche a costo di uscirne sconfitto. Ma significa anche non «darsela a gambe» (sebbene il male vada letteralmente fuggito) e resistere alla tentazione della malvagità o, se vuole, alla “dittatura del peccato”. In definitiva, significa non arrendersi mai, proprio mai, in nessuna forma. Vuol dire sapere che Cristo con il suo sacrificio ha fatto il lavoro decisivo per me e per tutti, ma una parte della fatica spetta a noi. Questa, mi è stato insegnato, è la logica e la speranza e la sequela del cammino della Croce e della Risurrezione. Continuo a pensarlo e a dirlo, forse con enfasi – come lei ritiene – ma prima di tutto a me stesso, proprio perché da una vita sperimento un senso d’inadeguatezza e di gioiosa (non sorrida…) sfida davanti al compito di essere miti di cuore e capaci di vita buona e vorrei avere ciò che non ho: la fede, la santità di vita e la forza disarmata e pacificante di Francesco d’Assisi al cospetto del lupo o del Mahatma Gandhi di fronte all’umanamente «impossibile» (perché i giusti e i salvati, come non si è stancato di insegnarci papa Benedetto, non sono solo tra i battezzati). E c’è dell’altro. Da uomo (e da giornalista non convertito al cinismo) semplicemente non posso e non voglio fingere di non sapere e di non vedere che il male c’è ed emerge pure là dove si vive tutti bene (o si vive meglio) e con alto grado di sicurezza, ma che nelle situazioni di miseria, di marginalità e di degrado la prepotenza e la violenza si scatenano di più. Per questo bisogna reagire con forza all’ingiustizia e alle crescenti diseguaglianze. E, qui e ora (visto che lei richiama il tema di quello che, alla grossa, viene definito, “reddito di cittadinanza”), bisogna decidersi a frenare fino a capovolgere con scelte “attive” il processo di impoverimento di milioni e milioni di nostri concittadini. Impoverimento che è una doppia tragedia, che stravolge e mortifica la vita di tante persone (soprattutto, ma non solo, anziani e giovani) e prepara dolori e drammi anche per chi si pensa in salvo. Infine, gentile e caro lettore, continuo a scoprire in diversi modi, e proprio come ci ricorda incessantemente papa Francesco, che la misericordia non esclude nessuno e non impedisce affatto la giustizia, ma la reclama e le dà anima. Perciò il lavoro che redime va proposto e moltiplicato, non esorcizzato o addirittura bestemmiato.Mi creda: non si possono costruire scivoli verso l’abisso che si spalanca tra l’ordine e il rispetto reciproco giustamente difesi e i colpi di pistola fai-da-te. E ogni predicazione dell’assoluta legittimità del “se mi entra in casa, gli sparo” è radicalmente insensata. Perché – detto e pensato così come si sente e come i fatti di cronaca indicano – “casa” finisce per essere non tutto, ma tanto: le scale del condominio, la propria auto o moto, il portone comune, la strada che lambisce il muro o il giardino... E dove si finisce, di questo passo e con questi spari annunciati? Nella privatizzazione della giustizia. Un abisso, appunto. Saremo anche in disaccordo, come lei dice, sugli spari di cui parliamo troppo e che ci stanno entrando dentro la testa, ma sono convinto che entrambi in quell’abisso non intendiamo caderci dentro. E credo proprio, come scrivevo il 2 novembre scorso, che per «coloro che ne hanno più bisogno» in realtà preghiamo con lo stesso spirito. Ricambio il suo cordiale saluto.
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