sabato 8 dicembre 2012
COMMENTA E CONDIVIDI
Da quando le intemperie finanziarie ci hanno colti di sorpresa, come un ladro nel sonno, siamo svuotati di molto nella nostra vita personale e sociale. Tutti sono meno ricchi, parecchi sono diventati (più) poveri. Non per scelta (sarebbe stata una bella scelta, evangelica – cioè autentica, profetica), ma per necessità. Qualcuno sta provando a fare di questa necessità una virtù di governo della vita propria e familiare, altri di quella dell’intero Paese. La speranza di entrambi è che la vita con meno beni a disposizione non sia meno buona e bella di quella con molti. È una sfida ragionevole per la nostra speranza, per quella dei nostri figli, della società? Il caso è serio: c’è il rischio che la speranza – la più piccola delle tre virtù sorelle, secondo il genio di Charles Péguy, ma che trascina le altre – ne esca sconfitta, indebolita, umiliata. Sarebbe una grazia il contrario.  In un mondo di disgrazia, è possibile ancora trovare grazia solo perché è la Grazia che trova noi. L’annuncio dell’angelo Gabriele a Maria, il luogo teologico della festa dell’Immacolata, quel nome inaudito – «piena di grazia» (Lc 1,28) – è la porta della speranza non solo per lei, ma per tutti. I dogmi mariani riguardano anche noi, sono la grammatica per capire l’umanità, la nostra origine e il nostro destino, la storia e la sua parabola. Da soli non riusciamo a liberarci dal nostro male che è la sorgente di ogni altro male morale e fisico, individuale e sociale, nazionale e mondiale. Non ne abbiamo le risorse adeguate. Senza un Avvenimento di grazia ci manca l’alfabeto della speranza e la vita si fa triste. E La tristezza è l’anticamera della paura. «Non temere, Maria», aggiunge l’angelo, perché la Grazia è più grande del peccato, la misericordia di Dio è più potente del male e sa trasformarlo in bene. Immacolata significa preservata dalla radice del peccato, non preservata dalla lotta, dalla sofferenza. Anche la Madonna ha combattuto con il serpente, ha conosciuto la fatica del credere, la delusione dell’educare, il dolore della croce di suo Figlio, la pazienza dell’attesa della Pasqua, di un mondo nuovo. La fatica del suo cuore c’era tutta, senza sconti, ma c’era la speranza della figlia e della madre dell’Amore. L’amore di Maria al destino della sua vita e della nostra, di tutti, è il segreto della sua speranza. Quando tutto cambia, la terra si muove sotto i piedi e le coordinate della vita cui ci eravamo affidati non s’intravvedono più, l’«eterno consiglio» – come direbbe Dante – ha un «termine fisso» (cf. Paradiso, XXXIII, 3). Un punto certo dell’orizzonte a cui guardare. Un ponte verso il futuro che non scavalca ma attraversa il presente. E attraverso questo ponte ci viene incontro quello che non possiamo raggiungere da soli, conquistare da noi stessi. Ci serve il coraggio di ammetterlo: «Un imprevisto è la sola speranza», come ci ricorda il poeta Montale. Quello che è imprevedibilmente, graziosamente accaduto in Maria riaccende in noi, orfani del vero amore, la speranza che sola dona significato e gioia alla fatica del vivere. Alla «Madre del bell’amore», come l’ha proposta tante volte ai giovani Giovanni Paolo II, possiamo guardare per imparare a leggere quello che ci sta accadendo, per ricominciare ad amare la nostra vita e quella dei nostri cari e amici, così come adesso è, senza sconti eppure bella per la sovrabbondante grazia di Cristo. Una bella festa quella dell’Immacolata, perché la sorgente della bellezza della vita è una Grazia, non un calcolo, una misura, un’economia. Con lo sguardo in alto e i piedi per terra si ricomincia a camminare, comunque. Come Benedetto XVI ha recentemente ricordato, «la Stella della speranza», che risplende in mezzo alla storia, è al contempo «la Stella dell’evangelizzazione», che efficacemente orienta i nostri passi personali e comunitari incontro a Cristo che viene.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: