domenica 18 maggio 2014
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L’uomo antico aveva più accessi al mistero della vita. Abitava in un mondo dove gli uomini, le donne e gli esseri 'visibili' erano solo una piccola parte dei suoi abitanti parlanti. La terra era piena di messaggi e di simboli, che percepiva in modo forte e chiaro. Molte di quelle 'parole' erano vive e vere, e noi le abbiamo dimenticate, come accade quando impariamo da adulti una nuova lingua e dimentichiamo quella appresa da bambini. E così ci impoveriamo. Arrivato nella terra dello zio Laban, Giacobbe «guardò, ed ecco: un pozzo» (Genesi 29,2). Il pozzo è un grande simbolo nelle culture nomadiche. Era ed è segno di vita, della rigenerazione della natura, della salvezza delle greggi e delle persone, luogo dei rapporti, delle comunità, delle oasi, degli incontri. Ed è attorno ai pozzi che nella Bibbia (Isacco, Mosè, Gesù con la Samaritana) si svolgono anche molti incontri tra uomini e donne. C’è, infatti, un’antichissima e diffusa familiarità tra la donna e l’acqua (le sirene, le ninfe). Anche Giacobbe incontra sua cugina Rachele presso un pozzo, mentre pasceva le pecore («ella era infatti pastore»: 29,9), restandone subito incantato: «Giacobbe baciò Rachele, alzò la voce e pianse» (29,11). È durante il lungo e complesso periodo trascorso da Giacobbe nella casa di Laban che compare per la prima volta nella Bibbia la parola 'salario': «Comunicami quale deve essere il tuo salario» (29,15). Il primo salario è una moglie: «Io ti servirò sette anni per Rachele, tua figlia minore» (29, 18). Certo, in questo salario speciale ci sono tracce (che non ci piacciono) di un mondo antico dove le figlie erano 'merci' (31,14), ma vi è anche nascosta, come una perla, una delle più belle definizioni dell’amore umano: «Giacobbe servì per Rachele sette anni: ai suoi occhi parvero come pochi giorni a motivo del suo amore per lei» (29,20). In questi complessi e avvincenti capitoli, Giacobbe, il salariato, non era un uomo libero: era straniero senza proprietà, un lavoratore dipendente, in una condizione sociale e giuridica simile a quella di un servo (nel mondo pre-moderno era soltanto la proprietà della terra a creare ricchezza e status). Ma al termine dei sette anni concordati, quel contratto-salario non funzionò: Laban con un inganno (arte ben nota a Giacobbe) gli dà in moglie non Rachele «bella di aspetto» ma Lia, la primogenita con «gli occhi smorti» (29,17), e chiede a Giacobbe di restare al suo servizio per altri sette anni per avere anche Rachele come moglie. Giacobbe restò, perché «amò Rachele più di Lia» (29,30). Trascorsi ulteriori sette anni, Giacobbe vuole tornare a Canaan. Laban deve liquidargli il suo compenso: «Fissami il tuo salario, e te lo darò» (30,28). I due stipulano un altro accordo per determinare la parte di gregge che spetterà a Giacobbe, un contratto pieno di trucchi (30,31-43), che finirà per compromettere il rapporto tra di loro (31,1-2). Così anche questo secondo contratto-salario tra Laban e Giacobbe produce conflitti e ingiustizie. Ieri e oggi i contratti possono produrre e producono diseguaglianze crescenti e conflitti, perché diventano strumenti per impoverire la parte più debole dello scambio. I forti e i deboli esistono, e restano tali anche quando firmano 'liberamente' contratti. Anche per questo, all’umanesimo biblico non bastano i (pur necessari e spesso indispensabili) contratti: ha bisogno dei patti.È anche questo il messaggio dell’epilogo del dialogo-conflitto tra Laban e Giacobbe. Laban raggiunge Giacobbe in fuga, e il nipote gli esprime tutta la sua frustrazione per le ingiustizie subite dallo zio, che gli ha cambiato «dieci volte il salario» (31,41). Ma al culmine di quel dialogo difficile, Laban gli dice: «Vieni, stringiamo un’alleanza, io e te» (31,44). Dopo l’Alleanza con JHWH, e quelle con popoli stranieri, qui arriva la prima alleanza tra uomini della stessa comunità, un patto tra due persone che si scoprono finalmente pari. Il contratto-salario non era stato per loro un buon strumento di pace di giustizia, il patto la sarà. In tutti i patti i simboli sono essenziali: «Allora Giacobbe prese una pietra e la eresse come stele» (31,45). La prima stele l’aveva eretta a Bet-èl (28,18) come altare dopo il sogno della 'scala' per il cielo; ora una seconda stele la erige per un patto con un altro uomo. I patti inter-umani non meritano steli più piccole, perché celebrano anch’essi l’Alleanza, la vita, l’amore - forse anche per questa ragione la Chiesa cattolica ha inserito il matrimonio celebrato dagli sposi tra i sacramenti, accanto all’eucarestia. Ma i simboli di questo patto non finiscono qui: «Poi Giacobbe disse ai suoi compagni: 'Raccogliete delle pietre!'. Così essi presero delle pietre e ne fecero un mucchio. Poi mangiarono là, su quel mucchio». E Laban disse: «Questo mucchio sia testimonio tra me e te». (31,52). Anche Isacco aveva mangiato con Abimèlek (26,30) dopo la stipulazione dell’alleanza tra di loro. Mangiare insieme dopo i patti era ed è molto più di un 'pranzo di lavoro' (anche se in tutti i pranzi di lavoro c’è un’antica eco di quei lontani patti). Condividere il cibo è condividere la vita, è la comunione che si fa anche cibo. Il pranzo delle nozze è un elemento importante di quel patto, perché dice comunitariamente altre importanti parole di vita. Una riconciliazione, una dichiarazione d’amore, prendono più forza se accompagnati da una cena, da una festa di convivialità magari preparata assieme nella sobrietà – non credo che si possano celebrare questi patti buoni in club privati o segreti (lì si celebrano invece molti patti sbagliati, lo vediamo tutti i giorni). Anche dopo i funerali in molte culture era costume mangiare insieme con i famigliari del defunto, perché quel cibo condiviso diventava dolore condiviso e rinnovo di un patto comunitario – i nostri funerali sono tristi, ma tristissimi sono i dopo-funerali sempre più consumati nelle solitudini. La nostra epoca sarà ricordata per tante cose splendide ma anche per l’invenzione del fast-food e del panino solitario nelle pause-pranzo. Tutti sappiamo la grande differenza che c’è, in termini di gioia e di qualità della vita, tra un pranzo condiviso con colleghi-amici e uno solitario. Quando mangiamo con un buon amico­collega, insieme alle calorie 'mangiamo' beni relazionali che ci nutrono non meno del cibo, e rendono migliori il nostro lavoro, la nostra vita e la nostra salute (lo dicono i dati). Un segnale dell’insostenibilità del nostro modello economico sono i troppi panini solitari. Negli atti veramente importanti le parole umane sono essenziali ma non bastano: vogliamo sentire parlare la natura, il cielo, gli antenati, gli angeli, tutta la terra. Quando dietro un contratto ci sono cose che contano davvero (una nuova impresa, una scuola, un ospedale …), non è sufficiente un brindisi. Ho conosciuto imprenditori civili e cooperatori che quando assumevano un nuovo lavoratore lo invitavano a cena, e durante quel pasto assieme donavano al nuovo arrivato la storia dell’impresa, i suoi valori originari, e così riviveva e si estendeva il patto fondativo. Non si diventa compagni di viaggio senza il cum-panis, senza il pane condiviso. I contratti che producono vita buona e durano nel tempo sono preceduti o seguiti da patti. Un’impresa nata da soli contratti o diventa anche un patto - spesso dopo una crisi superata - o muore. Nella società tradizionale, i patti erano impliciti nelle comunità che esprimevano i contratti delle imprese e delle cooperative, che, non a caso, nascevano da famiglie o da comuni appartenenze politiche o spirituali. Anche la nostra democrazia e le nostre istituzioni sono nate da patti sbocciati dalle lacrime e dal sangue delle guerre e delle dittature. E per questa ragione i contratti generati da quei patti sono stati forti e buoni, e ci fanno vivere ancora. Ma dove stiamo fondando oggi i nuovi contratti, le nuove banche, i nuovi partiti, le nuove imprese? Dove sono i nostri patti, i nostri simboli, le nostre steli, i nostri cum­panis? Fin quando ci accontenteremo di avere come 'testimoni' le ipoteche e gli avvocati? È questa 'carestia del fondamento' la ragione più profonda delle tante crisi del nostro tempo. La nostra generazione sta ancora poggiando i propri patti su un patrimonio etico, spirituale e simbolico costruito in secoli di civiltà. Ma lo stiamo esaurendo. Se vogliamo iniziare a rigenerarlo, occorre ricominciare a fondare simbolicamente le nostre relazioni, reimparando a condividere il pane buono. Dopo quel patto e quel pasto di pace, Giacobbe continuò il viaggio e «gli si fecero incontro gli angeli di Dio». (32,2).
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