domenica 13 febbraio 2011
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La Fiat, dunque, resta italiana. Per ora, almeno. Diciamo per un triennio. Poi nel 2014 si vedrà, verranno valutati i risultati del piano Fabbrica Italia e le condizioni di competitività del gruppo. Soprattutto, verranno soppesate da un lato le convenienze finanziarie e normative, dall’altro i rapporti con i governi e il quadro sociale, fattori che saranno decisivi nel far pendere la "testa" del gruppo al di qua o al di là dell’Atlantico.Chi pensava che dall’incontro di ieri ai massimi livelli tra il governo e i vertici del gruppo automobilistico venisse una parola definitiva sui destini Fiat rimarrà deluso. E forse non poteva essere altrimenti, perché per le multinazionali «del doman non v’è certezza» in una globalizzazione capace di stravolgere assetti economici consolidati nel giro di qualche anno. Si possono rimpiangere le antiche sicurezze e soprattutto battersi per costruirne di nuove più avanzate. Intanto, però, occorre fare i conti con i dati di realtà. E questi ci dicono che, nella situazione attuale, è già un mezzo miracolo che la Fiat sia ancora in Italia: con la testa direttiva, il cuore progettuale e i muscoli produttivi. Ieri sono stati confermati gli investimenti da 20 miliardi (anche se Marchionne non ha fornito ulteriori particolari sulla loro destinazione, lasciandosi mano libera nel contrattarne le condizioni). A breve partiranno le ri-assunzioni dei lavoratori di Pomigliano e Mirafiori. Sono stati ribaditi gli obiettivi di produzione che dovrebbero far tornare a girare gli impianti e lavorare gli operai dopo due anni passati più in cassa integrazione che alla catena di montaggio, mentre le vendite calavano a picco. La Fiat, non dimentichiamolo, era sull’orlo del fallimento appena cinque anni fa, con un azionariato familiare in difficoltà, che ha saputo, grazie a scelte manageriali efficaci, tirarsi fuori dalla zona pericolo. E che ha poi trovato un insperato ancoraggio nella "chiamata" di Obama al salvataggio della Chrysler. Un domani le due case dovrebbero fondersi e – ipotesi non smentita ieri – la sede legale potrebbe essere fissata negli Usa. Ne ha bisogno l’amministrazione americana che tanto ha speso e si è spesa nell’operazione, senza contare la convenienza sul piano normativo e fiscale per la stessa società.Il punto vero, però, è un altro: dove Fiat-Chrysler baserà il centro della propria progettazione e ricerca avanzata, dove i legami forti con indotto e fornitori: a Torino o a Detroit? Ed è ciò per cui non solo il governo italiano, ma pure le parti sociali, gli enti locali, l’università – in una parola l’intero sistema-Paese – dovrebbero impegnarsi e battersi. Pensare che la Fiat resti in Italia solo per una mozione degli affetti è un’illusione, pretendere che vi rimanga per un’imposizione della politica un abbaglio, a meno di non voler tornare all’epoca dei foraggiamenti a fondo perduto o di una "nazionalizzazione" ormai fuori tempo massimo. Occorre invece creare quelle condizioni per le quali vi sia una convenienza economica e sociale reciproca. Anzitutto attraverso relazioni industriali maggiormente partecipative anziché conflittuali: gli accordi di Pomigliano e Mirafiori sono stati passaggi fondamentali in questa direzione, senza i quali oggi la Fiat avrebbe già fatto le valigie, ma che vanno ulteriormente sviluppati in uno scambio forte tra produttività, occupazione e salari da un lato, condivisione degli obiettivi e maggiore partecipazione alle scelte d’impresa, dall’altro. E ancora, occorrono legami più stretti tra formazione e impiego, tra ricerca universitaria e privata, l’una a fare da volano all’altra, assieme a una burocrazia che non freni lo sviluppo. Infine, ma non meno importanti, investimenti pubblici molto mirati, esclusivamente per promuovere un modo diverso di fare auto: meno inquinanti, meno ingombranti. Queste, assai più di altre, sono le «frustate» di cui l’economia del Paese ha bisogno. Questo è ciò che «dobbiamo» alla Fiat e a noi stessi, assieme a ciò che possiamo «pretendere» dal gruppo torinese. Il destino di Fiat, come più in generale della nostra industria, non è affatto segnato: abbiamo dalla nostra sapere, creatività, una rete di piccole e medie imprese che il mondo ci invidia. Solo l’ignavia può farci perdere la sfida.
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