La vera cura dei poteri
sabato 1 aprile 2023

Il primo presidente in due secoli e mezzo di storia americana entrerà in una procura in stato di fermo (senza manette) e poi, con buona probabilità, finirà sotto processo. Quello che non era capitato a Richard Nixon, responsabile di spionaggio politico, accadrà dunque per Donald Trump, non solo ex inquilino della Casa Bianca, ma candidato per le prossime presidenziali del 2024. Per la democrazia Usa, che continua a presentarsi come il sistema guida nel mondo (si è appena concluso il secondo Summit for Democracy organizzato da Joe Biden), si annuncia una prova di particolare rilievo.

Il leader che ha contribuito a incitare la folla ad assaltare il Parlamento il 6 gennaio 2021 (questa la realtà anche se non c’è ancora una verità ufficiale) e vuole tornare a guidare il Paese farà campagna elettorale alle primarie repubblicane (e forse anche dopo, se le vincerà) mentre sarà a giudizio nella sua New York per una serie di reati di natura fiscale. Il più eclatante riguarda, com’è ormai ben noto, il pagamento di 130mila dollari ad un’attrice a luci rosse per comprare il suo silenzio sulla loro breve relazione (extraconiugale per lui). Non è un crimine stipulare un accordo privato di quel genere, lo diventa se si aggirano – come dovrà provare l’accusa – le regole della raccolta fondi e della contabilità aziendale. La trasparenza non sembra essere mai stata la caratteristica principale delle imprese economiche del tycoon dell’edilizia e dell’intrattenimento.

Ma nessun procuratore prima di Alvin Bragg era riuscito a concludere un’istruttoria. Proprio il pm di Manhattan, eletto come prevede l’ordinamento, e per giunta nelle liste democratiche, sta diventando il primo bersaglio della propaganda repubblicana in difesa di Trump. Un magistrato ostile perché progressista, si dice, persino finanziato da George Soros – il magnate liberal di origine ebraica (ecco il sottointeso). Non sarà certo questo il solo fronte che Trump vorrà aprire per ribaltare la traiettoria negativa che si apre per lui e trarne, anzi, vantaggio in termini di consenso. Il 45° presidente potrà vantare un curriculum da “perseguitato” che non ha in effetti precedenti.

È l’unico ad aver subito due procedure di impeachment, alle quali è sfuggito in entrambi i casi per il voto favorevole del Senato controllato dal suo partito. È inseguito da accuse di molestie sessuali, di bancarotta fraudolenta, di intese inconfessabili con Mosca, solo per citarne alcune. Per nessuna, tuttavia, ha dovuto rinunciare alla sua carriera pubblica e, oggi, probabilmente dovrà puntare tutto su un’altra assoluzione o sulla destabilizzazione del sistema istituzionale e politico. L’essere alla sbarra non gli impedirà di correre per la terza candidatura alla poltrona più alta. Ma lo potrà verosimilmente fare solo al prezzo di rovesciare il tavolo dello stato di diritto e delle procedure legali che lo sostanziano. Ha già tentato di farlo alle ultime elezioni, quando esercitò pressioni sulle autorità della Georgia per ottenere i voti dello Stato anche in assenza di una maggioranza repubblicana (di qui potrebbe venire presto un’altra imputazione). E la sua campagna si annuncia orientata su questa linea semieversiva.

Un’anticipazione è venuta dal suo recente, simbolico comizio a Waco, cittadina teatro del tragico assedio alla setta davidiana, uno dei tanti gruppi ostili allo Stato federale che costituiscono parte dell’elettorato di Trump. La divisione che vuole ulteriormente approfondire – noi, i cittadini dell’America profonda dimenticati dai politici corrotti ed emarginati dalla cultura liberal, contro loro, le ricche élites che dominano a Washington e nelle grandi città – segnerà la società statunitense nel breve periodo avvelenando il processo decisionale e la fiducia in esso. Le retorica della “vittoria rubata” dall’attuale presidente nel 2020 si unirà a quella della giustizia piegata a fini politici.

Se la gran parte del Partito repubblicano accoglierà questa strategia, potremo vedere Trump protagonista ancora a lungo di questa sfida della “democrazia sostanziale” e “di parte” alla democrazia delle garanzie e dei diritti universali. Un pericoloso catalizzatore anche a livello globale dove, dall’India a Israele, dal Brasile all’Ungheria, le tentazioni di affidarsi a un uomo forte o a modalità di governo poco rispettose delle minoranze sono o sono state reali e si è avuta indicazione di quali conseguenze possano sortire. Dipingere Trump come il diavolo non è peraltro utile – Biden pare avere scelto la linea di non cavalcare l’inchiesta – , anche perché non è lui la singola causa dei tanti mali da cui è afflitta la democrazia americana. Capire e curare la patologia in corso diventa allora il compito più urgente.

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