Il 73% delle richieste di «accesso civico» resta inevaso
venerdì 21 aprile 2017

Vi interessa sapere quanto investe il sindaco nelle spese di rappresentanza? E qual è il suo curriculum? O quanto costano i fuochi di artificio per la sagra paesana, che menu prevede la mensa della scuola dove volete iscrivere vostro figlio, quant’è costato il nuovo monumento in piazza? Volete consultare le ispezioni sanitarie nei ristoranti per sapere se nella pizzeria sotto casa sono state riscontrate violazioni delle norme igieniche? Basta chiedere.

Direttamente all’amministrazione pubblica interessata, e senza neppure spiegare perché volete saperlo. E gratis (al massimo possono addebitarvi il costo delle fotocopie, se servono). Pochi lo sanno, ma dal 23 dicembre scorso è in vigore la legge sull’accesso civico che consente agli italiani di ottenere – con pochi limiti – dati o documenti in possesso delle amministrazioni pubbliche. Senza spendere un centesimo e anche in mancanza di un motivo sensato: la curiosità è sufficiente.

Dal canto loro gli uffici comunali o statali sono obbligati a rispondere entro trenta giorni, come prevede un decreto attuativo della riforma Madia della pubblica amministrazione, il numero 97, approvato il 25 maggio dello scorso anno. Un obbligo largamente disatteso: l’Ong “Diritto di sapere” – che si occupa di tutela e promozione del diritto di accesso alle informazioni – ha messo alla prova uffici e funzionari inviando 800 richieste di accesso a numerose amministrazioni pubbliche in tutta Italia. Un monitoraggio che ha coinvolto gli attivisti di diverse organizzazioni – da Legambiente a Trasparency International – nonché giornalisti e cittadini.

Nel 73% dei casi le richieste non hanno ottenuto risposta. Si trattava di domande tra le più varie, dall’utilizzo di fitosanitari in agricoltura alla spesa pubblica per l’accoglienza dei migranti, ai finanziamenti dei centri antiviolenza, alla presenza nell’acqua di sostanze potenzialmente pericolose per la salute.

Il Foia – che sta per Freedom Information Act e che, in Italia, avrebbe anche potuto chiamarsi “atto per la libertà di informazione” – sembrerebbe nato morto. L’ennesima occasione persa. Eppure renderlo efficace ed efficiente sarebbe una spinta e uno stimolo alla partecipazione del cittadino all’attività amministrativa, a familiarizzare con uffici e strutture spesso vissuti come ostili, uno strumento di democrazia e partecipazione civile. A chi serve una trasparenza così opaca?

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