giovedì 19 luglio 2012
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Le volute di fumo nero che si sono alzate ieri dal centro di Damasco raccontano meglio di tante parole la trasformazione dello scenario siriano e l’inizio di una nuova fase della guerra civile nel Paese. Colpito al cuore il regime con l’uccisione di ministri e parenti dello stesso presidente Assad, portata la rivolta nelle strade della capitale, indebolita la rete di sostegno del sistema di potere alawita con la fuga di altri generali, da ieri Assad è più fragile. Aumenta concretamente il rischio di una implosione totale del suo sistema di potere. La natura del sanguinoso attentato dimostra come i sedici mesi di rivolte abbiano fiaccato il regime, assottigliando le forze di cui può effettivamente disporre, creato varchi negli asfissianti sistemi di controllo e repressione, generato dubbi e distinguo fra le fazioni al potere. I margini di manovra per il presidente si riducono, tanto più se si considera la natura particolare del suo regime, che non è tanto legato al partito ba’th, quanto alla piccola minoranza alawita, che in questi decenni ha occupato tutti i gangli e gli interstizi del potere. In molti, all’interno del regime, stanno probabilmente rimpiangendo di non aver mai aperto dei canali con l’opposizione, quando ciò ancora era possibile. Ma l’aumento delle violenze, il degenerare degli scontri in vera guerra civile, il tipo di attacchi che ricorda sempre più le violenze jihadiste che per anni hanno insanguinato l’Iraq, testimoniano anche la trasformazione del fronte di opposizione ad Assad, la sua militarizzazione e radicalizzazione. In uno scenario di questo tipo, appare pericolosamente illusorio pensare che la caduta dell’attuale crudele regime possa portare a una transizione tutto sommato indolore, in cui i partiti liberali siano in grado di traghettare il Paese verso un modello democratico. A giocare un ruolo sempre maggiore sembrano i movimenti sunniti radicali sostenuti – e armati – dai Paesi arabi del Golfo, attivissimi in tutto il Medio Oriente post primavera araba nel dare appoggio ai salafiti, cioè ai peggiori rappresentanti dell’islam. Molte delle forze che combattono Assad dimostrano una violenza e una ferocia che spinge i gruppi lealisti a resistere a ogni costo, dato che l’alternativa sembra quella di rassegnarsi a subire una ritorsione brutale. E non si tratta solo degli alawiti. La Siria è una nazione plurale e composita, in cui le diverse confessioni cristiane hanno giocato un ruolo importante a ogni livello: basti pensare a Michel Aflaq, il fondatore del nazionalismo pan-arabo. Ebbene, le incertezze e i timori per il futuro stanno spingendo molti cristiani a cercare di lasciare il Paese. Ancora una volta, come già in Iraq e come forse in Egitto, essi rischiano di vestire gli scomodi panni dei vasi di coccio stritolati fra opposti estremismi. Il rinvio della votazione all’Onu sul caso siriano, richiesta dallo stesso inviato Kofi Annan, è stata una conseguenza ovvia, dato che la Russia, tanto più dopo questo attentato, avrebbe osteggiato ogni risoluzione. Ma posporre semplicemente la discussione non cambierebbe granché. E tempo invece di guardare a quanto avviene in Siria con prospettiva meno dicotomica (buoni da una parte, cattivi dall’altra) di quanto fatto finora, in particolar modo a Washington. Non si tratta certo di difendere un governo criminale o immaginare un futuro politico per un dittatore come Assad, ma tentare di rileggere la realtà siriana alla luce dei mille disastri che abbiamo dovuto affrontare in Medio Oriente, dalla tragedia irachena, al fallimento afghano, al pasticcio libico, all’anarchia perdurante da vent’anni in Somalia. Abbattere con la violenza un dittatore, sostenere una parte contro l’altra in una guerra civile, tanto più in società plurali o frammentate, espone al rischio concreto di una violenza settaria che trascina quel paese – e la sua regione – nel caos. Una Siria in cui gli alawiti, i cristiani e le altre forze minoritarie siano ridotti al silenzio sarebbe una Siria più debole, certo non più giusta o meno insanguinata.
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