La sola luce che rifulge
venerdì 6 gennaio 2023

C’è una nota di fondo che è risuonata anche dal silenzio attorno al feretro di Benedetto XVI nella piazza San Pietro gremita per le sue esequie. Una nota che già il giovane teologo bavarese aveva colto prima ancora del Concilio e non ha mai più smesso di seguire, anche quando venne chiamato come Successore di Pietro.

La nota è questa: che la Chiesa è di Cristo. E vive nel mondo come riflesso della Sua luce e cresce nel mondo in forza della Sua Grazia. Quello che è nuovamente emerso dalla bara nuda sul sagrato di San Pietro è questo dato elementare e liberante. Dato che aveva costituito anche il volto più intimo della Chiesa che il Concilio voleva riproporre al mondo, nel suo intento di aggiornamento. E fin dall’inizio per Joseph Ratzinger, sulla base di questo primo, elementare dato, è stata la nota che aveva riscoperto e continuamente riaccordato nella propria consonanza di sguardo con l’avventura conciliare.

Il titolo e le prime righe della Costituzione dogmatica Lumen gentium sulla natura della Chiesa erano stati in questo senso folgoranti. Lì il Concilio aveva confessato con chiarezza e semplicità che la sorgente della Chiesa non è la Chiesa stessa, che essa offre la propria corporeità perché possa risplendere e irradiarsi nel mondo la grazia operante del suo unico Signore. In questo modo il Concilio si poneva sulle orme di quei Padri della Chiesa – così cari già al giovane teologo bavarese – che fin dai primi secoli erano ricorsi all’immagine del mysterium lunae, il mistero della luna, per sottolineare quale fosse la natura della Chiesa e l’agire che le conviene. Fulget Ecclesia non suo sed Christi lumine, scrive sant’Ambrogio, come la luna, la Chiesa splende non di luce propria, ma di quella di Cristo.

«C’è dunque una sola luce – gli fa eco Cirillo d’Alessandria –, in quest’unica luce splende tuttavia anche la Chiesa, che non è però che Cristo stesso». Proprio questa coscienza dello splendore riflesso della Chiesa che unisce i Padri del primo millennio e il Concilio Vaticano II aveva irrigato diffusamente i documenti conciliari ai quali l’allora perito teologo Ratzinger aveva preso visione. E nei quali si era espresso il sensus Ecclesiae che, proprio attingendo al tesoro della Tradizione, si era smarcato da ogni autoreferenzialità ecclesiocentrica, abbracciando le attese degli uomini e i segni dei tempi.

L’immagine della Chiesa come segno e riflesso, edificata continuamente dalla grazia di Cristo è la filigrana non solo di tutto ciò che Joseph Ratzinger ha detto e ha fatto intorno al Concilio Vaticano II, ma alla luce di questo va compreso anche il suo lascito magisteriale come Benedetto XVI. Per papa Ratzinger l’urgenza è stata quella di rimanere all’immagine della Chiesa proposta dai Padri della Tradizione e ripresa dall’ultimo Concilio, che attinge al mistero stesso della sua natura e della sua condizione nel mondo. Solo così si aprono le strade per tornare ad annunciare il Vangelo nelle condizioni date.

Solo così si sgombra il terreno da dialettiche artificiose e di comodo. Solo così si può liberare da schemi politici, impacci ideologici e armature soffocanti il campo della Chiesa nel tempo. È questo il lascito e il testamento di Benedetto XVI, della sua umiltà e del suo coraggio. Lascito ripreso nella continuità da papa Francesco, il quale, nelle Congregazioni generali prima del Conclave che lo elesse suo successore alla Cattedra di Pietro, aveva parlato proprio del mysterium lunae per ribadire la natura della Chiesa e l’agire che le conviene. Tutto sta a ripartire sempre da qui. Come aveva scritto il teologo belga Gérard Philip nelle ultime righe del suo commento alla Lumen gentium che lui stesso aveva in gran parte redatto: «Non sta a noi profetizzare sul futuro della Chiesa, sui suoi insuccessi e sviluppi. Il futuro di questa Chiesa, di cui Dio ha voluto fare il riflesso di Cristo, Luce dei Popoli, sta nelle Sue mani».

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