mercoledì 28 gennaio 2009
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Il Tar della Lombardia prende posizione sul ca­so di Eluana Englaro, annullando l’atto con cui la Regione Lombardia si era rifiutata di accoglier­la nelle proprie strutture, per farla 'morire dolce­mente' (cioè per sottoporla a 'eu-tanasia'). È giu­sta questa sentenza? Assolutamente no (se sia 'va­lida' o come se ne possa accertare la 'validità' è questione che lascio volentieri ai dibattiti dei giu­risti). Perché questa sentenza è ingiusta? Perché prende posizione (con accenti indebitamente pe­rentori) su di una delicatissima questione bio­giuridica e ancor più bioetica, ignorandone gli a­spetti problematici, forzando i termini della que­stione e lo stesso dettato del diritto positivo. Se infatti è vero che è diritto di ogni persona quel­lo di non essere sottoposta a trattamenti sanitari obbligatori (se non nei casi previsti dalla legge), perché questo (ma questo soltanto!) dispone l’ar­ticolo 32, secondo comma, della Costituzione, non è vero che questo diritto possa automaticamen­te essere interpretato come un diritto a presta­zioni mediche che favoriscano l’eutanasia passi­va. Il malato, ancorché gravissimo (purché mag­giorenne e capace di intendere e di volere) può cer­tamente rifiutare (se debitamente informato) l’o­spedalizzazione e qualsiasi atto medico o chirur­gico che gli venga proposto: non può però pre­tendere che medici e sanitari abbiano il dovere di operare attivamente per dare attuazione alla sua volontà di eutanasia. Sbagliano i magistrati, quan­do sostengono che cessare di alimentare Eluana non implichi l’eutanasia, ma solo il rispetto per u­na sua scelta insindacabile: rispettare una scelta, infatti, non comporta il dovere di cooperare con chi la compie per aiutarlo nel realizzarla, quando si ri­tiene che tale scelta sia eti­camente e socialmente cri­ticabile, oltre che deontolo­gicamente problematica (e soprattutto quando si ab­biano legittimi dubbi che la scelta sia veramente tale: siamo certi che Eluana fos­se realmente informata, in modo adeguato e comple­to, di cosa comporta la so­spensione dell’alimenta­zione e dell’idratazione, di quanti giorni sono necessa­ri per morire?). È indubbio che sia i singoli medici sia la sanità co­me istituzione hanno dovere di rispettare la vo­lontà di chicchessia di non curarsi, ma è altret­tanto indubbio che non possono diventare desti­natari di un dovere di aiutare un paziente a mo­rire: lo proibisce non solo l’etica medica, ma lo stesso diritto penale, quando sanziona l’aiuto al suicidio. Ma il Tar pensa il contrario e sembra non rendersi conto che questa sua pronuncia, come altre che l’hanno preceduta, feriscono gravemente lo statuto della medicina ippocratica. Non è cer­to questa la prima volta che l’astratto (e formal­mente valido) ragionamento di un giudice fa vio­lenza alla giustizia e non sarà certo questa l’ulti­ma volta in cui saremo costretti a rilevarlo. L’im­portante è che non si pensi che in tal modo si ac­cendono nuove inutili polemiche; qui non stiamo confondendo diritto e morale (come qualcuno si ostina a sostenere), ma stiamo difendendo il di­ritto e la sua vocazione prioritaria, che è la difesa della vita, contro la pericolosissima deformazio­ne ideologica, di chi vuole ridurlo a tecnica di (dol­ce!) regolamentazione burocratica della morte. Ecco perché il Parlamento (di cui il Tar in questa sentenza rileva l’inerzia, con accenti che mi sem­brano molto inopportuni) ha il dovere di interve­nire con la massima rapidità per approvare una legge sulla fine della vita umana e sulle dichiara­zioni anticipate di trattamento, una legge che ri­sponda a minimi requisiti di giustizia. È essen­ziale che la legge, nel riconoscere il diritto al di­chiarante di chiedere o rifiutare specifici tratta­menti sanitari, escluda quelli attivamente o pas­sivamente eutanasici (e la sospensione dell’ali­mentazione è eutanasia!). Ed è altrettanto essen­ziale che la legge indichi i criteri per un rigoroso accertamento dell’autentica volontà del dichia­rante e della sua compiuta competenza e infor­mazione. Accanto a questi requisiti un altro è assolutamente indispensabile, per strette ragioni di giustizia: u­na volta imposto al medico, destinatario delle di­chiarazioni, il dovere di prenderle rigorosamente in considerazione, gli si deve riconoscere altresì il diritto di disattenderle, con adeguata motivazio­ne, quando egli ritenga in scienza e coscienza che esse vadano contro il bene del malato, quel bene che egli si è impegnato con un giuramento a tu­telare, sempre e comunque.
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