venerdì 30 settembre 2016
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Un anno in meno alle superiori: le ragioni per dubitare Periodicamente si torna a discuterne, a formulare proposte, a motivare l’eventualità di abbreviare di un anno il curriculum scolastico degli studenti italiani. Si tratterebbe sostanzialmente di sopprimere l’ultimo anno della scuola secondaria superiore, che passerebbe così da 5 a 4 anni. Se si interrogano in proposito esponenti del governo, essi tendono a rassicurare i contrari (a partire, com’è ovvio, dai sindacati della scuola) che la questione non è all’ordine del giorno. Eppure ogni tanto qualcuno prova a lanciare un ballon d’essai, giusto per sondare le reazioni. E non è casuale che il Ministero dell’Istruzione abbia già da qualche anno autorizzato sperimentazioni in questo senso in alcuni istituti del Paese. A fine agosto, peraltro, il ministro Stefania Giannini ha comunicato di aver esteso il percorso del 'liceo breve' (cioè di 4 anni) ad altre 60 prime classi. I favorevoli a questa svolta sottolineano lo svantaggio di un anno che ora i nostri diplomati patiscono rispetto a quelli di altri Stati europei: conseguendo il diploma di maturità a 19 anni si iscrivono all’università ed entrano nel mercato del lavoro con un anno di ritardo. L’impressione, però, è che le pressioni più forti verso una simile soluzione non vengano – sulla base di riflessioni di tipo pedagogico, educativo, culturale – dai soggetti istituzionali a cui è demandata l’organizzazione del nostro sistema di istruzione, bensì da settori dell’economia e dell’industria, la cui visione è fondata, come è naturale, su parametri, appunto, di tipo economico e produttivo. La politica, però, ha il compito di interrogarsi in profondità su tutti i risvolti di una determinata questione, prima di avallare soluzioni potenzialmente deleterie. La scuola non è, e non deve diventare, una 'fabbrica' che sforna lavoratori istruiti per determinati compiti e pronti a svolgere un certo lavoro (la stessa istruzione professionale è in pare questo, ma non solo questo), bensì il luogo in cui si forma la persona e il cittadino. In altre parole una visione della scuola in senso soltanto professionalizzante equivarrebbe a un esiziale impoverimento delle sue funzioni.  Eppure a volte si ha l’impressione che la dimensione culturale ed educativa rischi di passare in secondo piano rispetto a quella di una formazione in senso tecnico e professionale, e questo persino nei licei. Dallo scorso anno, ad esempio, ha preso il via in tutte le scuole secondarie di secondo grado la cosiddetta 'alternanza scuola-lavoro': a partire dal terzo anno i ragazzi svolgono degli stage (non retribuiti) in aziende (private o pubbliche). La ratio del provvedimento è chiara e in sé condivisibile: ridurre la divaricazione che spesso si lamenta tra mondo della scuola e mondo del lavoro. L’aspetto positivo dell’esperienza è anche quello per cui essa costituisce un momento di orientamento per le scelte future (dal corso di laurea da frequentare al tipo di lavoro a cui indirizzarsi), un’occasione per mettere alla prova le competenze maturate, una possibilità di rendersi conto di quanto, in qualsiasi ambiente di lavoro, sia fondamentale il rispetto delle regole (cosa che a scuola ogni tanto i ragazzi tendono a sottovalutare). Ma il bilancio non può essere totalmente positivo, perché tutto ciò si traduce, di fatto, in tre settimane di scuola in meno (il tempo in cui, per compiere l’esperienza lavorativa, i ragazzi sono 'assenti giustificati'). Insomma, dobbiamo stare attenti che, per andare incontro alle richieste del mondo del lavoro, dell’impresa e dell’economia, e per aiutare i ragazzi a inserirvisi, non finiamo con il depauperare lo spessore culturale ed educativo dei percorsi di studio. Se qualche dubbio, sulla base di quanto riferiscono gli insegnanti che la stanno sperimentando, emerge in merito alla strutturazione di un progetto interessante come quello dell’alternanza scuola-lavoro, a maggior ragione è legittimo che sorgano diverse perplessità quanto all’ipotesi di ridurre la durata della nostra scuola secondaria, dalla quale – vale la pena ribadirlo – oggi escono diplomati in grado di competere ai livelli più alti con quelli di tanti altri Paesi.
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