Paradosso Onu: e l’invasore russo guidò il Consiglio di sicurezza
sabato 1 aprile 2023

«È uno scherzo, vero?», aveva scritto su Twitter il capo della diplomazia ucraina Dmytro Kuleba. Perché la prima cosa che si poteva pensare è che quello fosse il classico “pesce d’aprile”, vista la macroscopica contraddizione fra il compito principale del Consiglio di sicurezza dell’Onu – affrontare le grandi questioni legate alla pace e alla sicurezza internazionale, come i conflitti armati, il terrorismo, la proliferazione delle armi di distruzione di massa, i crimini di guerra e la tutela dei diritti umani – e il fatto che da ieri è la Russia a presiederlo. Ma non si tratta di un pesce d’aprile, bensì di un (previsto) avvicendamento. Sarà così l’esperto e controverso ministro degli Esteri di Mosca, Sergeij Lavrov, a guidare il Consiglio, nonostante – protestano da Kiev – «la Russia stia conducendo una guerra coloniale e il suo presidente sia un criminale di guerra ricercato dalla Corte penale internazionale per rapimento di minori».

Fin qui l’ovvia reazione di una nazione aggredita dal febbraio dello scorso anno e trascinata in una guerra sempre più sanguinosa e, a oggi, senza reali prospettive di un negoziato di pace. Il quesito, tuttavia, se non sul piano etico, almeno su quello pratico permane: com’è possibile che la Russia – un Paese che fa strame dei Trattati da essa stessa sottoscritti – possa assumere un simile incarico con il consenso degli altri membri permanenti, ovvero la Cina, la Gran Bretagna, la Francia e gli Stati Uniti d’America?

La risposta la conosciamo da sempre, almeno per ciò che concerne l’architettura dell’Onu, organizzazione nata e istituita all’indomani del secondo conflitto mondiale da un gruppo di nazioni cosiddette “vincitrici”, ciascuna con diritto di veto. Quel diritto che di fatto ha paralizzato gran parte delle deliberazioni del Consiglio e impedito la soluzione di controversie di cruciale importanza. La Russia stessa, quanto a utilizzo del veto, brilla per il disinvolto uso che ne fa: negli ultimi dieci anni lo ha adoperato ventiquattro volte, ma Mosca brillava per il suo dinamismo già prima dell’era di Putin: il primo veto fu usato dall’Unione Sovietica nel 1946 per una risoluzione su Siria e Libano e da allora la Russia lo ha usato 143 volte, l’ultima delle quali per bloccare una pronuncia contro l’invasione (pardon: l’«operazione militare speciale») in Ucraina. A ben vedere anche gli Usa non scherzano: finora di veti ne ha espressi una novantina.

Risultato: la paralisi pressoché permanente del Consiglio di sicurezza e una demoralizzante dimostrazione della crisi di efficacia dell’Onu, nonostante le lodevoli intenzioni dei suoi segretari generali. Quanto all’impresentabilità di certe collocazioni ai vertici delle varie agenzie del Palazzo di Vetro, pensiamo solo all’Arabia Saudita quale membro del Consiglio per i Diritti Umani e al tempo stesso responsabile della morte del giornalista Jamal Khashoggi, trucidato nella sede consolare di Riad a Istanbul e fin dal 2017 membro della Commissione dell’Onu sullo status delle donne (di cui vantava innegabile esperienza, visto che fino a poco tempo fa erano segregate e impossibilitate a guidare automobili, recarsi da sole in spazi pubblici, partecipare alla vita civile). La Russia, si dice peraltro, più di tanto non potrà fare nel suo mese di presidenza. Al massimo allungare nel tempo qualche dibattito non gradito o poco più. Ma conta moltissimo anche ciò che questa presidenza dice e ripete al mondo. Accade all’Onu, prezioso e invecchiato elefante, sempre più incamminato verso il cimitero della Storia ma ancora irriformabile e privo di eredi a cui passare il testimone. E si vede.

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