sabato 18 dicembre 2010
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Ora che finalmente ci si sente meno condi­zionati dall’attualità, dato che si è (alme­no parzialmente) conclusa la vicenda del voto di fiducia al governo Berlusconi, è possibile tornare ad aprire una seria riflessione sul­l’' etica pubblica' e sulla sua attuale, profonda crisi. Colpisce quali e quante riflessioni siano state dedicate a questo tema nelle ultime set­timane e a tanti diversi livelli (dagli editoriali alle interviste sui giornali, da opere saggistiche a conferenze nelle scuole, dalle omelie a lezio­ni e seminari universitari). Colpisce indubbia­mente il tono nostalgico con cui alcuni parte­cipanti ad appassionati dibattiti hanno ricor­dato epoche della vita politica italiana, gene­ralmente etichettate come quelle della Prima Repubblica, ritenendole politicamente ben più nobili dell’attuale (epoche che, a chi le ha dav­vero vissute, appaiono invece molto meno lim­pide di quanto non si voglia far credere). E col­pisce soprattutto il moltiplicarsi delle 'invet­tive': e, si sa, l’invettiva è l’anticamera del mo­ralismo, cioè della peggior deformazione che si possa immaginare dell’autentica moralità. È per questo che chi, come noi, crede profon­damente nell’esistenza e soprattutto nella ne­cessità dell’etica pubblica ha il dovere di dis­sociarsi da tutti coloro che parlano di questa dimensione dell’etica, senza averne però un’a­deguata consapevolezza teoretica. L’etica pubblica, infatti, è esigente. È esigen­te almeno sotto tre profili. In primo luogo, chi crede nell’etica pubblica non può non crede­re alla sua assolutezza: non è possibile, infat­ti, elogiare l’etica pubblica e nello stesso tem­po cedere a tentazioni relativistiche. Se l’eti­ca è relativa non può non esserlo in tutte le sue dimensioni e quindi anche a livello pubblico. Se nella vita privata si pensa che le scelte eti­che siano plurime e insindacabili, non si ve­de perché non debbano essere parimenti plu­rime e insindacabili le scelte etiche pubbli­che. Per criticare come immorali le scelte pub­bliche dei politici, dobbiamo avere la serena coscienza che è legittimo criticare anche le scelte immorali dei privati. Il relativismo eti­co corrode la vita sociale, esattamente come corrode (anche se molti non vogliono am­metterlo) la vita individuale. Secondo profilo, peraltro strettamente con­nesso al precedente. Non è possibile tematiz­zare l’etica pubblica se si separa radicalmen­te, come oggi va di moda fare, il diritto dalla morale o se si riduce il diritto a mera proce­dura formale, moralmente neutrale. Con que­sto non s’intende dire che ci sia sempre un’as­soluta coincidenza tra diritto e morale, dato che è evidente che molti comportamenti pri­vati, pur moralmente condannabili (ricordia­mo l’esempio classico della golosità) non a­vendo rilevanza sociale sono da ritenere giu­ridicamente irrilevanti. Se però tra diritto e morale si pone un rigido steccato, secondo gli insegnamenti delle principali correnti del po­sitivismo giuridico, arriviamo rapidamente al­l’atrofizzazione etica della vita sociale, in tut­te le sue dimensioni. Esempio eclatante è quello del deficit di etica che sta contrasse­gnando l’economia in questi ultimi anni in contesti giuridico-formali pensati come pu­ramente funzionali; un deficit che ha prodot­to non solo la crisi finanziaria che tutti cono­sciamo, ma una vera e propria crisi morale del capitalismo, da cui non si sa esattamente co­me si potrà venir fuori. Il terzo profilo è probabilmente quello decisi­vo, per chi abbia davvero a cuore l’etica pub­blica. Si tratta di riconfigurare la stessa perce­zione di ciò che chiamiamo 'pubblico'. La mo­dernità ha appreso da Machiavelli che la scien­za politica non ha per suo oggetto il bene co­mune, ma 'il potere', per come lo si può con­quistare, per come lo si deve gestire, per come si può evitare di perderlo. Fino a quando que­sto paradigma, in tutte le sue innumerevoli va­rianti, resterà quello dominante, ogni perora­zione per l’etica pubblica suonerà inevitabil­mente come falsa e ipocrita. Fino a quando non si cesserà di pensare al potere come auto­referenziale e non si ricondurrà la dimensione di ciò che è 'pubblico' a incentrarsi sul bene umano oggettivo, sul bene di tutti e non sem­plicemente di una classe politica, di un’etnia o di una confessione religiosa, la stessa espres­sione 'etica pubblica' resterà vuota di senso, per quanto possa apparire a molti irrinuncia­bile e affascinante. Non è l’etica pubblica ad avere un valore in sé, bensì gli esseri umani: e questo loro 'valore' è davvero un assoluto non negoziabile.
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