La resistenza delle donne
domenica 23 ottobre 2022

A novembre saranno nove mesi di guerra. Nove mesi da quel 24 febbraio, quando ci siamo alzati un mattino attoniti: i carri armati russi erano entrati in Ucraina. «Operazione militare speciale», nel progetto di Vladimir Putin una settimana per prendersi Kiev e una per tornare indietro. Invece, quella resistenza imprevista e ostinata. (C’è una forma mentis da stupratore, in un uomo che pensa di conquistare un Paese così, in poche ore. Come quando una donna viene spinta in un angolo nel buio, e presa. E l’aggressore non ne prevede la resistenza disperata, e quasi se ne offende).

Stupri, ci è stato testimoniato, ce ne sono stati tanti, probabilmente a centinaia, quando le truppe hanno invaso Bucha e gli altri paesi ucraini. Stupri, ancora una volta, usati da militari e miliziani come “arma di guerra”, ha certificato l’Onu. E ora sono otto mesi, e si va verso i nove. Per lo più quelle donne avranno abortito.

Ma nel caos, nello choc, magari nella inconsapevolezza delle più giovani e inermi, o per umanità e fede ostinata di alcune, forse qualche gravidanza è andata avanti. E adesso, è l’ora. Mi immagino, nella desolazione dei campi profughi o delle città devastate, quelle donne col ventre vistoso della gravidanza matura. Come le guardano i conoscenti, i vicini? Con pietà, o con un fondo di ostilità? Lo sanno, che aspettano un figlio del nemico.

E lo sa bene lei, che sente in sé il bambino. L’esito di quell’ora terribile, di quelle botte, di quel fiato addosso; di quel sentirsi, nella violenza, una cosa. «La morte, che riduce gli uomini a cosa», ha scritto Simone Weil. Anche lo stupro riduce a cosa una donna, la fa sentire come morta. Ma nella solitudine delle notti, nel freddo che comincia a mordere, il bambino scalcia, prepotente di vivere. Un radicale conflitto spacca quelle donne, quelle ragazze: sono state invase e odiano l’invasore, lo ricordano come in un incubo.

Ma quel bambino, chi è? È il nemico, oppure l’ultimo dei reietti, scaraventato nel mondo per la strada peggiore? È il nemico, o un figlio? Ce ne saranno, di abbandonati, magari sulla porta di una chiesa. O alcuni, tenuti, saranno sotterraneamente detestati, “diversi” dai fratelli. Eppure in qualcuna forse accadrà l’imprevedibile: il prevalere dell’istinto materno, forza straordinaria, sull’odio. Uno scontro frontale in quelle madri, tra l’odio, cioè la morte, e la sorgente antica della vita, scritta dentro.

Forse è accaduto, sta accadendo l’impensabile, l’inaudito: quel seme gettato nella violenza, tuttavia ora è un figlio. Faticheranno a guardarlo al primo vagito, e nel suo attaccarsi al seno non sapranno se l’accelerare del loro cuore è rabbia, o cos’altro. Ma poi lui, o lei, saranno così inermi, e così totalmente fiduciosi il loro rifugiarsi nel petto, che, dentro, la madre sentirà crollare un muro. L’odio in macerie lascerà vedere, infine, che quello è un figlio.

Quante volte nella storia, dalle guerre barbariche alle invasioni che hanno tumultuosamente creato l’Occidente, alle guerre recenti, le donne sono state terra di conquista da prendere con la violenza? Milioni di volte. Nelle più remote ascendenze anche noi potremmo venire da una violenza. Il sangue dei popoli si è sanguinosamente incrociato. Quegli stessi soldati russi potrebbero essere nipoti degli ucraini deportati in Siberia nell’Holodomor, il genocidio ucraino voluto da Stalin nel 1932. Il trionfo dell’odio, nei secoli, nei villaggi invasi e saccheggiati. Restavano solo morti, macerie fumanti, e le donne violate.

Però alcuni di quei figli sono nati, alcuni perfino, contro ogni ragionevole logica, sono stati amati. Non era un dovere: la ribellione all’essere ridotte a cosa, a terra da possedere, è istintiva e umana. Eppure, l’alzarsi da dentro – sbalorditivo, per qualcuno scandaloso – di qualcosa di più forte ancora, di incrollabile: l’istinto materno, istinto di vita. Ciò che comunque, dopo ogni guerra, ha rifatto il mondo. Gli uomini distruggevano e le donne, come Penelopi, ritessevano la tela.

Per uccidere un uomo basta un istante, per farlo nascere ci vogliono nove mesi, e poi anni di cure. Allattare, svezzare, imboccare, reggere nei primi passi barcollanti, abbracciare: soprattutto, abbracciare. La poderosa, silenziosa e materna opera delle donne ha da sempre, in pace e in guerra, tenuto in piedi il mondo. E chissà che anche in Ucraina, magari in una ragazza di sedici anni, l’inaudito stia accadendo: quel seme di violenza, tuttavia, lei lo sente, lo sa, ora è un figlio. Forse, in Ucraina: adesso, che sono quasi nove mesi.

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