mercoledì 20 agosto 2014
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Che quello di Francesco nella Corea del Sud non fosse un viaggio limitato solo a un Paese lo si era intuito subito. L’andamento della visita lo ha confermato in pieno. Con le cinque giornate di Seul e dintorni, infatti, il Papa ha rafforzato la fede di un popolo «che ha molto sofferto, senza mai perdere la sua dignità», ma soprattutto ha spalancato sull’Asia una porta destinata a restare aperta permanentemente. Ieri in un tweet lo stesso Pontefice ha ricordato che nel grande continente tornerà presto (a gennaio nelle Filippine e nello Sri Lanka, per la precisione). Ma al di là dei futuri itinerari, è il magistero dispiegato nelle tappe della visita a confermare che, andando in Corea, Francesco ha inaugurato quella che potrebbe essere definita la sua "Est-politik".Un’attenzione prioritaria all’Asia (come ha detto in sede di bilancio del viaggio, il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi) che contiene una precisa strategia pastorale nei confronti di quella terra immensa. Laboratorio per molti aspetti del futuro, dove però i cristiani sono quasi ovunque poche gocce nell’oceano e spesso vengono anche perseguitati. Intendiamoci. Il Papa non si muove in base a logiche geopolitiche. «I cristiani - ha detto domenica - non vengono per conquistare, ma per camminare insieme» (e, in questo senso, la Chiesa di Corea docet). Ciò che gli sta a cuore è solo l’annuncio del Vangelo. E proprio in questo senso vanno lette le parole chiave del viaggio: dialogo, identità, empatia. Dialogo con tutte le componenti culturali e religiose delle società asiatiche, ha raccomandato Francesco. Dialogo con tutte le fasce di età, a partire dai giovani, protagonisti di questo viaggio, e ai quali in definitiva è diretto, più che ad altri, il mandato missionario. Dialogo infine con le entità statali (la Cina, ma non solo), che non hanno ancora rapporti pieni con la Santa Sede. Il permesso di sorvolo accordato dalle autorità cinesi all’aereo papale, i telegrammi di Francesco (all’andata e al ritorno) al presidente Xi Jinping, la mancata reazione negativa ai messaggi fanno sperare, ma è troppo presto per dire se di disgelo si tratta davvero. Il Papa ha inviato, anche durante la conferenza stampa del rientro, segnali rassicuranti: «La Chiesa - ha detto - chiede solo libertà per il suo lavoro ed è disposta a dialogare sempre». E il cruciale tema della libertà non sarà certamente secondario nell’"Est-politik" di Francesco. Il dialogo, tuttavia, non può funzionare senza la piena consapevolezza della propria identità. Cioè «la fede viva in Cristo». C’è nelle parole del Papa non solo l’invito a non annacquare l’annuncio, per non ferire l’interlocutore, ma soprattutto l’intima convinzione che il cristianesimo abbia molto da offrire a un continente che sta imboccando la via dello sviluppo, ma spesso sulla base di «un’economia disumana», che si alimenta di spirito di competizione, esalta la produttività senza regole e lascia nell’indigenza le fasce più deboli della popolazione. I ripetuti appelli del Papa a prendersi cura dei poveri possono sembrare un controsenso in una nazione come la Corea del Sud, dove la povertà è ben mimetizzata da alti ritmi di crescita. In realtà essi sono diretti all’Asia dei forti contrasti (si pensi all’India) e costituiscono uno dei capisaldi di quell’umanesimo cristiano frutto del Vangelo, di cui Francesco si è fatto araldo anche in questo viaggio.Su questo terreno, infine, il dialogo che non svende la propria identità si nutre di empatia, cioè di capacità di condivisione e consolazione, di rapporto interpersonale, di comunicazione da cuore a cuore. Il Papa stesso ne ha dato personale dimostrazione in questi giorni incontrando le donne che i giapponesi costringevano a prostituirsi durante la Seconda Guerra mondiale e i genitori delle vittime del traghetto Sewol. Ha messo anche sulla veste il fiocchetto giallo simbolo della richiesta di verità per quel disastro e rintuzzato chi gli consigliava neutralità sulla spinosa questione, dicendo che «con il dolore umano non si può essere neutrali». Così, alla fine, il battesimo richiesto da uno di quei genitori, e amministrato domenica dal Papa, va oltre il gesto stesso, per diventare il simbolo di una Chiesa che proprio attraverso il dialogo, l’identità e l’empatia sa e può evangelizzare. La strategia asiatica di Francesco, in fondo, è proprio qui e il Papa ha già cominciato a metterla in atto.
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