mercoledì 15 dicembre 2010
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Il dissenso fra Mahmoud Ahmadinejad e il suo responsabile degli Esteri, Manouchehr Mottaki, era noto da tempo a livello internazionale, così come evidenti erano i tentativi del presidente ultra-radicale di marginalizzare i pochi ministri che non dipendono ancora direttamente dalla sua persona o dai pasdaran, sempre più gli intolleranti "azionisti di maggioranza" della Repubblica islamica. Ma i modi con cui è maturato l’allontanamento del capo della diplomazia sono davvero irrituali: cacciare il ministro mentre è impegnato in una missione ufficiale risulta sorprendente anche per un personaggio esagerato e incline alle decisioni improvvise come il presidente iraniano. Nei prossimi giorni forse si capiranno maggiormente le motivazioni contingenti. Per certo, è un ulteriore segnale della trasformazione dell’Iran in un neo-totalitarismo dominato dalle forze paramilitari dei pasdaran, i quali hanno occupato posizioni di potere politico e amministrativo come mai prima d’ora, divenendo nel contempo il primo conglomerato industriale e produttivo tramite le loro attività finanziarie ed economiche. Mottaki era uno dei pochi ministri con qualche autonomia, che rispondeva non tanto al presidente quanto alla Guida suprema, l’ayatollah Khamenei. L’accusa che l’entourage presidenziale gli muoverebbe è quella di non aver saputo difendere il prestigio del Paese, perdendo continue battaglie alle Nazioni Unite, o non riuscendo a imporre Teheran quale sede di importanti conferenze internazionali, come quelle sulla filosofia e i diritti umani. Accuse paradossali: se l’Iran è isolato a livello internazionale, la colpa è di chi ha scatenato una repressione brutale di ogni dissenso, di chi minaccia di lapidare donne processate in modo irregolare, di chi ha manipolato le elezioni, di chi nega ripetutamente la tragedia della Shoah. Di Ahmadinejad prima di chiunque, quindi. Questo allontanamento dimostra inoltre la crescente debolezza di Khamenei: finora la Guida suprema aveva controllato il ministero degli Esteri per mezzo di propri uomini, rintuzzando con fastidio ogni tentativo dei vari presidenti di dettare la politica internazionale dell’Iran. Ora non sembra più così: mesi fa, Ahmadinejad aveva cercato di scavalcare Mottaki, creando inviati speciali che riferivano solo a lui. Una manovra bloccata dal Parlamento – dominato dai conservatori tradizionali e sempre più in rotta di collisione con il presidente – e dallo stesso Khamenei, le cui condizioni di salute, si vocifera, sono però ora sempre più precarie, rendendolo più isolato e meno capace di resistere alle pressioni degli ultraradicali. Ma questa mossa segnala anche la debolezza crescente dei conservatori tradizionali, di cui Mottaki era espressione: facile immaginare un ulteriore peggioramento delle relazioni fra il governo sempre più monoliticamente radicale e il Parlamento dai poteri ulteriormente ridotti. Ma nonostante ciò, sarebbe semplicistico aspettarsi cambiamenti di rotta improvvisi, a seguito di questo avvicendamento. In Iran tutto è più complicato di quanto appaia a prima vista. Anche il nuovo ministro degli Esteri pro-tempore, Ali-Akbar Salehi, è stimato e vicino a Khamenei. Soprattutto egli è il capo dell’Agenzia atomica iraniana: una certificazione, la sua nomina, di come il problema nucleare abbia vampirizzato ogni altra questione nei rapporti con l’esterno. Il programma atomico di Teheran è infatti divenuto una sorta di binocolo al contrario: riduce tutto alla questione dell’arricchimento dell’uranio e rende sfuocato – invece che più visibile – quanto avviene nel Paese. Il prossimo futuro ci dirà se l’ascesa di Salehi, un tecnico stimato anche in Occidente, favorirà un possibile accordo sulla questione nucleare, o se sarà solo una maschera per il potere crescente e sempre più intollerante di Ahmadinejad.
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