mercoledì 2 ottobre 2013
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È passato poco più di un decennio dalla fine del Novecento, per alcuni storici «secolo breve», per altri – e anche a mio giudizio – «secolo complesso». Complesso perché ha prodotto morte e divisione con le sue guerre e i totalitarismi, i suoi muri e la bomba atomica, i genocidi e la Shoah, ma ha anche dato speranze inattese con i nuovi costituzionalismi e la dottrina della nonviolenza, con la liberazione di popoli da antiche schiavitù e la promozione di una cultura di pace e di solidarietà. Diluvio e arcobaleno insieme. E ad annunciare l’arcobaleno, nella seconda metà del secolo, una enciclica papale dal titolo che è già un progetto ambizioso: Pacem in terris. Tanti i meriti. Il primo è quello di essere indirizzata a tutti gli uomini di buona volontà, credenti e non credenti, per superare antiche barriere. Cade così un muro, un luogo comune che ha in sé i germi della divisione e della guerra. E sull’agorà del mondo si apre una nuova finestra. Questi concetti sono spesso oggetto di riflessione in don Tonino Bello, che con questa enciclica ha vissuto «in empatia».
Lo ha detto in tutti i modi il pastore di Molfetta durante la sua esistenza, lo ha ribadito ogni giorno con la forza e la mitezza della sua fede e della sua vita. E c’è, nel suo ricordo, il gusto di qualcosa di antico e insieme di nuovo che porta dritti al Vangelo, alle sue pagine, ai suoi sentieri: quello che va da Gerusalemme a Gerico è forse il più indicato per centrarne la testimonianza. E oggi, nel tempo di papa Francesco, si può cogliere una felice consonanza di stile e di temi. Il grido di don Tonino di fronte agli eventi bellici di fine Novecento fa un tutt’uno con le implorazioni che papa Francesco rivolge ai potenti della terra. Così scriveva don Tonino in una lettera indirizzata ai responsabili della guerra nella ex Jugoslavia: «A tutti diciamo deponete le armi, sottraetevi all’oppressione dei mercanti della guerra, (…) non sottraetevi alle responsabilità di influire in modo determinante, ma non con le armi che consolidano la vostra potenza e le vostre economie, ma con efficaci mezzi di pressione e di dissuasione, per fermare questa carneficina che disonora insieme chi la compie e chi la tollera».
Per il vescovo di Molfetta camminare accanto a tutti gli uomini di buona volontà significa vivere il Vangelo senza confini, al di là di ogni perimetro. In convivialità fraterna. Con il desiderio di essere compagno dell’uomo e insieme testimone dello Spirito per vivere in comunione con la storia e con l’eterno, «sulla lunga strada dell’oggi fino ai confini del tempo», mettendo le nostre orme di credenti «accanto a quelle di tutti gli uomini di buona volontà». E se, negli anni Sessanta, Giovanni XXIII vedeva necessario il dialogo fra il mondo occidentale e i Paesi dell’Est, don Tonino alla fine del secolo, prima ancora del crollo del Muro di Berlino, richiamava l’attenzione sui nuovi muri che si andavano già erigendo tra il Nord e i Sud del mondo. Solo un nuovo ordine economico, capace di ridurre le distanze tra i Paesi poveri e i Paesi ricchi, una politica per lo sviluppo dell’intera umanità e la promozione della nonviolenza fra uomini e fra Stati, diceva don Tonino, avrebbero potuto avviare i processi storici per una pace duratura. E tuttavia, oggi, non possiamo trascurare come il concetto stesso di guerra si sia evoluto. In un contesto globale nel quale cresce l’interdipendenza, è sempre più presente la possibilità per i nuovi imperi di esercitare violenza sulle nazioni povere.
Accanto alla minaccia atomica e alla fame nel mondo, dobbiamo fare i conti con nuovi fantasmi che minacciano la comune convivenza. Il nichilismo, la minaccia cibernetica, un cinico mercato hanno svuotato di significato la nostra cultura sovvertendone di fatto i valori fondanti. E così emergono altri tipi di guerra che generano nuovi sudditi e nuovi vinti: c’è la guerra dei migranti, c’è la guerra alimentare, c’è la guerra finanziaria. Guerre altrettanto violente, perché subdole e capaci – complice un assordante silenzio – di generare nuove periferie. Quelle dove don Tonino Bello ha voluto collocare, accanto a quella del Maestro e dei poveri di tutto il mondo, la sua croce: «Issata fuori dall’abitato, quella croce sintetizza le periferie della storia ed è il simbolo di tutte le marginalità della terra. Ma è anche luogo di frontiera, dove il futuro si introduce nel presente, allagandolo di speranza». È di questa speranza che abbiamo bisogno. «Dobbiamo salire sulla croce. E lo facciamo ogni volta che siamo chiamati a quella forma di martirio, straziante e dolcissimo, che si chiama perdono, nel cui oceano, in questo momento, vorremmo chiedere al Signore di poter tutti naufragare».
Se nel giardino della Pace il primo albero a fiorire sarà quello del perdono, allora potremo annunciare l’arrivo di una nuova primavera dei popoli. Dio solo sa quanto ne abbiamo tutti bisogno.
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