giovedì 6 febbraio 2014
​Curare le persone non è eliminarle prima che nascano.
                                 di Augusto Pessina
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Senza entrare nel merito di una complessa analisi filosofico-antropologica sul rapporto tra la persona e il suo genoma, ci sono alcuni aspetti di natura biologica che per le forti implicazioni anche sociali vale la pena considerare, sia pure sinteticamente. Lo spunto ci è dato da un articolo riportato dalla rivista Nature dell’ottobre 2013, nel quale Erika Check Heyden analizza l’impatto sociale di quelli che chiama «tabù genetici», di quegli aspetti cioè della genetica deterministica che vorrebbero ricondurre fondamentali caratteristiche della personalità umana alla semplice considerazione dei "geni" del nostro Dna. Sulla base del tratto genetico di queste caratteristiche umane si potrebbero basare scelte di natura educativa o terapeutica realizzando una moderna versione della primitiva eugenetica. L’articolo analizza il livello di «tabù» inteso come grado di resistenza che si riscontra nell’ammettere che intelligenza, razza, orientamento sessuale e comportamento sociale dipendano dal proprio genoma. Di queste correlazioni (tra le più controverse di genetica comportamentale) oltre che la validità scientifica l’articolo descrive il livello di «tabù» sociale. Esso sarebbe molto alto circa il rapporto razza-intelligenza perché gli studi toccano un nervo scoperto e sono ritenuti pericolosi per il possibile utilizzo a sostegno di posizioni razziste sostenitrici della inferiorità di certi gruppi etnici rispetto ad altri. Moderato il livello di tabù relativo a violenza e sessualità. Sebbene considerato importante in campo criminologico, il rapporto tra tratti genetici e violenza psicopatica, ciò ha portato a scelte controverse in campo giuridico. Alcuni giudici hanno accolto queste tesi per mitigare le pene, altre giurie le hanno respinte ritenendo che un carattere genetico non possa essere causa diretta di un’azione. Al contrario, le ricerche su genetica e orientamento sessuale sembrano aver suscitato negli Stati Uniti molto interesse e anche gradimento da parte delle comunità gay. In questi studi ha fatto la sua entrata trionfale la cosiddetta «epigenetica della omosessualità», che cerca di stabilire quali fattori ambientali possono influenzare i tratti genetici di questo orientamento sessuale. Come sottolineato nell’articolo di Nature, molte convinzioni a riguardo di questi temi sono ritenute solide perché si pensa siano basate su inoppugnabili evidenze scientifiche. In realtà la maggior parte di esse si sono radicate grazie a falsificanti ipotesi formulate da studi che, incautamente e antiscientificamente, hanno contribuito a teorizzare l’assunto che «nei nostri geni sia racchiuso il nostro destino personale», riducendo in questo modo il valore della persona umana alla pura biologia. In realtà queste teorie, che in passato hanno ottenuto un certo successo, sono contestate dalla moderna genetica ed epigenetica, ma l’idea di fondo sopravvive e alimenta anche oggi posizioni che subdolamente o apertamente sostengono le moderne espressioni dell’eugenetica. Al suo esordio, l’eugenetica si presentava come rozza pseudo-scienza infarcita di ideologia, misticismo e razzismo, ma ai nostri tempi si è assai evoluta. Essa ha trovato, de facto, spazio per la sua applicazione nell’ambito di quelle sindromi genetiche per le quali le moderne tecniche sono in grado di porre la diagnosi prenatale senza poter offrire cure atte a guarire. Così si sono moltiplicati i casi che hanno come conseguenza della diagnosi una pratica abortiva "terapeutica" che paradossalmente fa coincidere la "terapia" con l’eliminazione del malato (in questo caso il portatore del difetto genetico). Analoghe situazioni, sia pure meno radicali, si verificano anche quando la diagnostica genetica è usata come parametro per il calcolo di rischio nello sviluppo di patologie nell’età adulta. Uno degli esempi più drammatici è quello di giovani donne, positive per alcune mutazioni di geni correlati al cancro al seno, che ricorrono alla mutilazione precoce delle mammelle. L’American Cancer Society suggerisce questa scelta poiché la probabilità di ammalarsi di cancro in questi casi è calcolata tra il 45 e il 65%. La pratica medica sembra quindi sempre più segnata dall’«eccesso diagnostico», perché spesso basata sulla diagnosi di patologie senza terapia o sul calcolo statistico di possibili patologie future che introduce sovente scelte drammatiche. Non è escluso che disponendo di un pannello di test genetici per valutare la possibilità di ammalarsi di Alzheimer (magari a 80 anni) si potrà, in futuro, decidere di eliminare queste persone prima della nascita. Di fronte a una medicina fortemente bio-tecnologica perfino la Food and drug administration (Fda) americana si è recentemente allarmata criticando la diffusione di test genetici "fai da te " brevettati per fare diagnosi su sperma e ovuli. Se dunque riflettiamo sulla moderna medicina dobbiamo riscontrare che non tutto ciò che ci propone è affascinante. Anzi, essa pone alla nostra coscienza un incremento di ansia insieme a interrogativi esistenziali e antropologici (oltre che sociali) soprattutto là dove si deve decidere della vita di altri. La decisione di non far nascere trova spesso motivazioni così forti da superare quella del desiderio di accompagnare a vivere chi alla vita è stato chiamato ancorché malato. In questa situazione è assolutamente necessario e ragionevole che gli ingenti finanziamenti per la diagnostica genetica siano sempre bilanciati da altrettanti finanziamenti dedicati alle possibile cure per queste patologie. Poiché – realisticamente parlando – è più probabile trovare la causa di una malattia genetica che la sua soluzione terapeutica, appare anche prioritario ed eticamente essenziale garantire e incrementare un’adeguata assistenza per questi malati e per le famiglie che li accolgono. Senza queste garanzie sarà sempre più probabile l’affermarsi di una società nella quale per molti occorrerà più coraggio per vivere che per morire. Anche di fronte a queste sfide così drammatiche ci conforta la testimonianza di papa Francesco che chiede ripetutamente a ciascuno di noi di non perdere la speranza e di portarla a tutti: «Siate realisti – ci dice – ma senza perdere l’allegria, l’audacia e la dedizione piena di speranza» Evangelii gaudium, n.109). Come ha paternamente ma severamente ribadito (in una sua omelia mattutina a Santa Marta il 29 ottobre 2013) «la speranza non è un ottimismo, non è quella capacità di guardare le cose con buon animo e andare avanti. La speranza è un dono, è un regalo dello Spirito Santo. La speranza è Gesù. Non possiamo dire: "Io ho speranza nella vita, ho speranza in Dio", no: se tu non dici: "Ho speranza in Gesù, in Gesù Cristo, Persona viva, che adesso viene nell’Eucaristia, che è presente nella sua Parola", quella non è speranza. È buon umore, ottimismo». Augusto Pessina è docente al Dipartimento di Scienze biomediche, chirurgiche, odontoiatriche dell'Università degli Studi di Milano
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