sabato 24 novembre 2012
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Uno degli aspetti più detestati dai popoli arabi prima dei recenti sommovimenti politici era l’assoluta discrezionalità degli au­tocrati che li governavano, svincolati da ogni potere indipendente che ne frenasse l’arbi­trio. Non a caso il soprannome di Hosni Mu­barak era quello di 'Faraone'. Con la cosid­detta primavera araba, si è pensato che anche nella sponda sud del Mediterraneo attec­chisse finalmente quel concetto di bilancia­mento e controllo incrociato fra poteri che sta alla base della democrazia.
I segnali che arrivano ora dall’Egitto del pre­sidente islamista Mohammed Morsi non so­no molto incoraggianti. Proprio nel momen­to in cui Washington riconosce esplicitamente il ruolo del Cairo quale cardine di un 'nuovo' Medio Oriente, proprio mentre il leader egi­ziano viene indicato quale artefice e garante della difficile tregua fra Israele e i palestinesi di Gaza, ecco il preoccupante colpo di mano sul fronte interno. Una concomitanza che non sembra casuale: avendo appena finito di elo­giarlo e di sottolineare la necessità del suo aiuto, come può ora l’Occidente attaccarlo per le imbarazzanti decisioni che umiliano la fragile e incompiuta democrazia egiziana? Eppure, dovremmo farlo: con le decisioni di questi giorni, Morsi sembra volersi atteggia­re a 'nuovo faraone', secondo l’amaro com­mento fatto da Mohammed el-Baradei, a ca­po del fronte liberale. I decreti e le leggi pre­sidenziali non potranno più essere impugnati, la magistratura viene di fatto asservita al po­tere esecutivo e, soprattutto, si danno al pre­sidente poteri ambigui e discrezionali per «preservare la rivoluzione e la sicurezza na­zionale ».
Dato che anche le Forze armate sono già sta­te normalizzate, sembra che l’Egitto si in­cammini nuovamente verso una china già percorsa troppe volte, di svuotamento pro­gressivo e sostanziale delle istituzioni dello Stato a vantaggio del reggente di turno. A dif­ferenza di altre volte, vi è oggi tuttavia una reazione di parte della popolazione, che è tor­nata a protestare nelle piazze, attaccando se­di del partito al potere. Vedremo se ciò favo­rirà una mobilitazione delle forze non isla­miste in vista delle elezioni parlamentari.
A chi si stupisce di questa deriva, tendenzial­mente plebiscitaria, giova forse ricordare che Morsi segue l’impianto ideologico dei Fratel­li Musulmani, ancorati alla visione della po­litica e dello Stato formulata – nella prima par­te del XX secolo – dal loro fondatore Hasan al-Banna. Per quest’ultimo, era fondamentale che il popolo scegliesse la sua guida; ma una volta eletto il leader, va seguito, fintantoché questi rispetti la Legge religiosa.
Tutte le at­tenzioni occidentale per pesi e contrappesi costituzionali sono pressoché assenti; la so­cietà è vista come un corpo in cui le differen­ze e le diversità politiche sono percepite co­me Fitna, come una frattura. Ma probabilmente vi è anche una lettura più personale: Morsi era tutto sommato una se­conda scelta per i Fratelli Musulmani; non il loro uomo di punta.
Come già successo con al-Maliki in Iraq, una volta salito al comando, sta cercando di massimizzare il potere attor­no alla propria figura, anche per emergere co­me leader indiscusso della fratellanza. In questo scenario, vanno aumentando i ti­mori della forte minoranza dei cristiani. Uno dei consiglieri del presidente, il copto Samir Morqos, si è dimesso per protestare contro questo vulnus che indebolisce le speranze di vera democrazia e che rende ancora più cu­po il futuro della comunità. Non che Morsi sia anti-cristiano: egli si limita a seguire il pen­siero di al-Banna, secondo cui i copti hanno ogni diritto a vivere in Egitto come dhimmi , protetti dal potere fino a che rispettano i pat­ti e accettano le limitazioni previste per i non­musulmani. Un 'radioso' futuro di cittadini di serie b, protetti dalla mutevole benevolen­za del nuovo aspirante faraone.
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