martedì 9 dicembre 2014
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Mentre cammino tra i poveri giacigli del nuovo ghetto degli immigrati di Rosarno mi rimbomba nella testa la frase, famosa e famigerata, di Salvatore Buzzi tra i principali protagonisti della "cupola" romana. «Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno...». Non è possibile non provare indignazione. Con chi ha fatto e, magari, ancora fa affari sulla disperazione delle persone. E ancor di più con chi glielo ha permesso e glielo lascia fare. A Roma come a Rosarno dove la Cupola romana era venuta a "fare affari" visto che qui, purtroppo, la "materia prima" umana non manca. E non manca da almeno 15 anni. E ogni anno è uguale o peggio del precedente.Si avvicina il 2015, e sarà il quinto anniversario della "rivolta di Rosarno" del 7 gennaio 2010. I migranti africani allora protestarono contro lo sfruttamento della ’ndrangheta e anche di un sistema economico locale (e non solo) dove dominavano, e ancora dominano, speculazioni, lavoro nero, ingiustizia e illegalità e dove l’intimidazione criminale si era fatta sanguinosa. Grazie alla comprensibile e disperata rabbia dei lavoratori africani, l’Italia e il Mondo scoprirono le drammatiche realtà di Rosarno, San Ferdinando, Rizziconi, Gioia Tauro e di tanti paesi di questa piana un tempo "giardino" di agrumi e ulivi e oggi ghetto di migliaia di migranti. "Avvenire" lo aveva già scoperto e denunciato da anni, documentando lo sfruttamento e la mancanza di accoglienza. E lo ha continuato a fare in questi cinque anni raccontando, e non soltanto a ogni anniversario della rivolta, una situazione che non cambiava, che non è cambiata. Anzi che è tornata a peggiorare.Abbiamo girato tra le catapecchie delle campagne, tra fabbriche dismesse, tendopoli e baraccopoli, tra fango e rifiuti. Ci siamo ritrovati a dover raccontare un’altra volta di stenti e di morti di freddo. Ma anche a poter dare voce e volto a un volontariato ostinatamente in prima linea, a buona e concreta gente di parrocchia e di associazione, agli operatori della Caritas. Da soli, in un perdurante e colpevole vuoto delle istituzioni, mentre le tempeste scatenate dalle indagini sui profittatori inducono tanti a pensare che il bene sia solo apparente, contagiabile e infatti contagiato dal male. Non è così, e occorre dirlo con forza, ringraziando chi testimonia la verità di una scelta civile e cristiana per i poveri e gli sfruttati che è senza calcoli e senza interessi.Ma il male è tenace. E nelle terre di Rosarno, anche quest’anno, abita e prospera tra la miseria di baracche e di altre catapecchie, tra il fango e i rifiuti. I lavoratori dalla pelle scura sono tornati, come cinque anni fa, a occupare un capannone come allora l’ex Opera Sila. Certo, meglio che all’aperto ma sempre di un ritorno al "ghetto" si tratta: senza luce, senza riscaldamento, senza bagni, malgrado l’ammirevole e quotidiano impegno dei volontari e del giovane parroco don Roberto.Emergenza continua, malgrado tutti sappiano che qui, ogni anno, da novembre alla primavera, arrivano migliaia di migranti con la speranza, o l’illusione, di un lavoro e di un povero guadagno. Tutti sanno, ma tutti fanno finta di non sapere di questa "piccola Africa" sfruttata e abbandonata. Solo iniziative tampone, all’ultimo secondo, spesso sbagliate. Come la scelta, in sé giusta, di abbattere le baracche malsane, ma di farlo a ottobre e senza proporre alternative. Così i lavoratori migranti sono indotti, anzi costretti a trovare da soli "soluzioni" che non sono molto meglio delle baracche e, spesso, anche peggiori. Emergenza, già. Ma che emergenza è un fenomeno che si ripete ogni anno da tanti anni? La realtà dice, anzi grida, che quest’«emergenza» a qualcuno fa comodo. A quelli della "cupola" romana e ai protagonisti di altre poco chiare gestioni dei centri per migranti che i lettori di questo giornale conoscono bene e che, in parte, sono finite sotto la lente degli inquirenti. Fa comodo, perché il ricorso a strumenti straordinari invece che a una quotidiana ordinaria buona amministrazione crea zone grigie. E fa male perché in Italia si continua a ragionare sul numero delle persone sbarcate e non sulle persone stesse. Si riempiono "centri", sempre più grandi, o si lasciano crescere "ghetti" ma non si realizzano programmi di integrazione. E così Rosarno e le tante altre Rosarno d’Italia restano uguali a se stesse per anni. Vince la contabilità non l’umanità. E gli esiti, doppiamente devastanti, sono oggi sotto i nostri occhi.
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