domenica 13 novembre 2011
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I centri decisionali delle cancellerie nazionali e degli organismi internazionali non possono più sottovalutare quanto sta avvenendo nel Corno d’Africa. Anziché affrontare le crisi dei singoli Paesi quasi fossero questioni singole e autonome, dovrebbero piuttosto definire un’agenda comune, una sorta di "Road Map" regionale, prima che sia troppo tardi. Finora l’unica iniziativa multilaterale, deludente sia dal punto di vista logistico sia degli aiuti umanitari, ha riguardato la drammatica emergenza alimentare, cui questo giornale ha cercato di dedicare la massima attenzione. Tra i numerosi dossier attinenti la regione, in primis vi è la guerra non dichiarata ma già in atto tra Nord e Sud Sudan. L’ultimo, grave episodio è stato il bombardamento di un campo profughi, a Yida, che si trova a circa 15 chilometri dal confine, avvenuto giovedì scorso. A questo proposito l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Navi Pillay, ha chiesto un’indagine indipendente, approfondita e credibile sul raid aereo che sarebbe stato effettuato dall’aviazione nordsudanese. Le autorità di Juba accusano il regime di operare queste azioni con l’intento di provocare un nuovo conflitto aperto. Khartum respinge tutto al mittente, affermando che si tratta di macchinazioni studiate a tavolino per screditare la reputazione del proprio presidente Omar el-Bashir. Un leader, è bene rammentarlo, ricercato dalla Corte penale internazionali per gravissimi crimini perpetrati dal suo governo nella tormentata regione del Darfur. Vi è dunque il tangibile rischio che la contesa tra Nord e Sud Sudan possa riproporre lo scenario precedente agli accordi di pace, siglati a Nairobi nel gennaio del 2005. A fronte di quanto detto sinora, vanno segnalate almeno altre tre crisi, una cronicamente latente e le altre due conclamate. Anzitutto, la "guerra fredda" tra Etiopia ed Eritrea, tangibile già da oltre un decennio, anche se con andamento ondivago. Dato l’isolamento internazionale (giustificato) cui il governo di Asmara è sottoposto, si registra l’avvicinamento del presidente Isaias Afwerki verso Iran, Corea del Nord e partner della sponda saudita. Inoltre, sembra sia ripresa la collaborazione militare con gli al-Shabaab somali che si oppongono al governo di transizione di Mogadiscio, riconosciuto dalla comunità mondiale. Ed è proprio la Somalia la zona più incandescente del Corno d’Africa, non solo per l’acuirsi del conflitto interno, ma anche a seguito dell’intervento militare keniano, che mira a stroncare la rivolta dei radicali islamici. Nel frattempo a Nairobi cresce la preoccupazione per le azioni terroristiche già operate dai miliziani somali oltreconfine. Peraltro il 2012 sarà l’anno delle elezioni generali in Kenya e le divisioni interne all’attuale esecutivo di unità nazionale lasciano presagire accese lotte per il controllo del potere, dalla forte connotazione non solo partitica, ma anche etnica. Infine, è in gioco anche la rinegoziazione dei termini per la distribuzione delle acque del Nilo, dato che le quote sono ferme all’accordo precoloniale del 1951. Si tratta di ridefinire le regole rispetto al vastissimo bacino idrografico, considerando la riluttanza del Cairo a fare grandi concessioni. Il nuovo corso egiziano pare infatti prediligere una posizione filoislamica e potrebbe perciò ulteriormente favorire, proprio a partire dalla riottosa Somalia, le fazioni avverse ai Paesi considerati filooccidentali come Kenya, Sud Sudan, Uganda ed Etiopia. Gli scenari, per questa martoriata regione d’Africa, appaiono davvero foschi, poiché al momento – duole doverlo scrivere – nessuna ipotesi realistica, ragionevole e non condizionata da pregiudizi ideologici è stata avanzata in sede internazionale, al di là dei rituali pronunciamenti formali, mai seguiti da azioni concrete.
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