La guerra che non si può vincere, il negoziato che non deve tardare
venerdì 11 novembre 2022

Come quasi sempre accade, i militari si mostrano più saggi e perspicaci dei militaristi. Così è toccato al generale Mark Milley, capo degli stati maggiori riuniti delle forze armate Usa, elencare alcune delle verità che risultano così indigeste ai sostenitori della guerra a oltranza in Ucraina contro la Russia. Il generale, intervenendo all’Economic Club di New York, ha detto in sostanza quanto segue. L’invasione dell’Ucraina è stato un tremendo errore strategico che la Russia sconterà per molti anni a venire. L’Ucraina sta pagando un prezzo tremendo, con un numero di rifugiati e profughi tra i 15 e i 30 milioni di persone e almeno 40mila civili uccisi, senza contare le distruzioni materiali. I due eserciti stanno soffrendo perdite enormi, l’uno e l’altro ben oltre i 100 mila uomini tra morti e feriti. E soprattutto, Milley ha ribadito ciò di cui è convinto chi da tempo sostiene l’assoluta urgenza di un cessate il fuoco e dell’apertura di un negoziato: «Bisogna accettare il fatto che una vera vittoria militare è sempre meno possibile per l’una e per l’altra parte, e quindi bisogna ricorrere ad altri mezzi per risolvere la situazione».

In poche frasi, Milley ha messo in cifre realtà drammatiche (per esempio le perdite degli ucraini) che gran parte della stampa occidentale rifiuta di affrontare. Ha ricordato a tutti che questa guerra non avrà vincitori, ma solo vinti. E ha lanciato un monito: « È probabile che con l’inverno la linea del fronte si stabilizzerà e dunque potrebbe aprirsi una finestra per un negoziato che ponga fine ai combattimenti. E se c’è un’opportunità di negoziato per raggiungere la pace, bisogna coglierla».

Difficile essere più chiari di così. E siccome a certi livelli non si parla a caso, vien da pensare che siano vere le voci che da settimane parlano di una certa stanchezza della Casa Bianca nei confronti di una guerra che si è già prolungata oltre ogni previsione e che rischia di trasformare l’Ucraina in una Siria nel cuore dell’Europa. Un Paese con un focolaio di guerra perennemente acceso, con una parte del territorio sottratta al controllo del Governo centrale, (Kiev come Damasco, Donetsk e Lugansk come Idlib) e non riconquistabile con mezzi militari (come dice Milley), e con un confine mobile e permeabile a ogni tipo di incursione. Con una differenza: in Siria non si è mai affacciato lo spettro del nucleare.

Anche la Russia è stanca e lo si vede. Alcuni mesi fa, proprio su queste colonne, ipotizzammo che il vero obiettivo del Cremlino non fosse la conquista dell’Ucraina ma il controllo dell’Est del Paese fino al fiume Dnepr, da usare come confine naturale. Una specie di ritorno al Seicento, quando il regno polacco controllava la riva sinistra e l’impero russo quella destra. Il ritiro da Kherson e il passaggio dei russi alla sponda orientale del fiume concretizza le previsioni di allora, sottolineando però che la Russia non ha centrato il risultato. A Sud, Odessa non è stata presa. A Nord, non tutto il Donbass è stato conquistato, ed era ciò che gli uomini di Putin definivano «l’obiettivo minimo». Ha quindi un senso che molti analisti vedano nell’abbandono di Kherson, e prima ancora nel ritorno all’accordo sul grano mediato dalla Turchia, non tanto una mossa militare quanto un’iniziativa diplomatica, il segnale di una disponibilità nuova. Comunque sia, sarà meglio che i militaristi ascoltino il generale Milley: se c’è un’occasione per negoziare, non lasciamola cadere.

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