La gran partita è in periferia
mercoledì 8 gennaio 2020

A venti giorni dal voto cruciale in Emilia Romagna, due evidenze su tutte si stanno imponendo all’attenzione degli schieramenti e dell’opinione pubblica: una riguarda l’importanza della piazza e della mobilitazione sul campo di candidati ed elettori, l’altra rimanda al rapporto tra centro e periferia, tra la grande città e il paese di provincia.

Silenziosamente, la battaglia cominciata a novembre nel duello mediatico tra il Paladozza di Matteo Salvini e le autoconvocate "sardine" di Bologna, si sta trasferendo nei piccoli Comuni e nei borghi. Non potrebbe essere altrimenti, soprattutto per il centrosinistra, che nelle ultime Europee ha avuto un crollo repentino nei Comuni della Regione, passando da 171 a soli 76 municipi vinti, mentre la Lega si affermava in 252 Comuni (contro i precedenti 157).

La riscoperta del borgo è un dato di fondamentale importanza perché è questa Italia ad essere maggioritaria, nonostante tutto. Sempre di più anche il nostro Paese (come altri) appare diviso tra metropoli che corrono – si pensi a Milano – e anticipano tendenze e fenomeni culturali, e province che arrancano, insidiate dalla stessa deriva lepenista che nella Francia distante da Parigi fa proseliti da decenni a mani basse. Che la sfida per il futuro di un territorio si sia spostata dai capoluoghi di provincia a Rasora, frazione di Castiglione dei Pepoli, 86 anime nell’Appennino al confine con la Toscana (dove le "sardine" si sono date uno dei loro ultimi appuntamenti) e a Finale Emilia, 15mila abitanti, dove era atteso ieri sera Matteo Salvini, è dunque un bene. Significa che la piazza metropolitana sta diventando quartiere, via, rione. Non solo, vuol dire che la piazza non basta più e che alla politica nazionale serve altro: programmazione sul territorio, presenza fisica nei circoli di partito, conoscenza dei bisogni di un elettorato che, a torto e a ragione, si ritiene da tempo dimenticato ai confini dell’impero.

Senza scomodare l’antica tradizione partitica e sindacale del nostro Paese nel XX secolo, che ha animato la storia del secondo dopoguerra, basta guardare a quel che è successo nei primi venti anni di questo Duemila, per capire che chiunque abbia cercato una qualsiasi legittimazione da parte dell’opinione pubblica ha dovuto misurarsi con il termometro sociale della popolazione di strada per capire se il sistema Paese fosse in salute oppure no.

Le fibrillazioni ci sono state a sinistra, soprattutto, ma anche a destra: alla folla del Circo Massimo di Sergio Cofferati e ai Girotondi di Nanni Moretti, durante il governo Berlusconi del quinquennio 2001-2006, rispose un’analoga manifestazione dell’allora Casa delle libertà a Roma. Il motivo era chiaro: il richiamo mediatico delle agorà pubbliche era e rimane irresistibile, da sempre. Perché restituisce l’immagine di un popolo che si mobilita, galvanizza chi vi si trova e chi guarda all’esterno, sorprende persone di età e culture diverse che scoprono una ragione comune per partecipare. Non sempre però la protesta è diventa proposta, certamente ha dato sfogo a fenomeni sociali nascosti a volte di grandi dimensioni. È quel che è successo nell’ultimo decennio: il tribuno del popolo più recente è stato un comico, Beppe Grillo, che nello Tsunami Tour del 2013 girava piazze, piazzette, strade improvvisando comizi di successo un po’ ovunque. Il cortocircuito coi social network, che rilanciano e organizzano eventi improvvisati dal basso, ha fatto il resto.

Lasciata libera la scena da quello che si definì il 'Megafono' del Movimento, lo spazio è stato preso (con minor verve comica, va detto) prima dal leader della Lega, Matteo Salvini, abile nel solleticare gli istinti e le pulsioni nascoste dell’italiano medio, e adesso appunto dalle 'sardine', autoconvocatesi nelle città d’Italia, con l’intento tra l’altro di dare un’anima a un governo giallorosso che resta pur sempre agli occhi degli italiani una fredda operazione di laboratorio. Un’anima che peraltro ha bisogno di uscire dalla sua fase nascente, come dimostra la decisione annunciata ieri di strutturarsi, a partire dal prossimo congresso nazionale. Di questo passo, siamo tornati a oggi. La breve storia della comunicazione politica di questi 20 anni, fino al voto emiliano-romagnolo, è infatti la storia di un Paese che ha bisogno di riconoscersi, di stare insieme, di riannodare dialoghi e storie tra generazioni e territori diversi, sapendo che mai come adesso sarà la periferia a decidere l’esito delle competizioni. Lontano ancora una volta dalle luci della ribalta.

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