La disparità servita in mensa
martedì 8 novembre 2016

Quando si parla di politiche familiari o di aiuti ai figli il discorso cade solitamente su questioni come gli incentivi alla natalità, gli asili nido, i bonus, e via dicendo. Raramente si parla di mense scolastiche. Ed è un errore. Perché se si solleva il coperchio del pentolone mense in Italia, è difficile non notare come la diversità di trattamento da città a città raggiunga livelli così elevati da rappresentare un potente fattore di disparità sociale. Su Avvenire lo abbiamo scritto più volte, parlando anche di «tassa occulta» a carico delle famiglie a seconda del Comune in cui abitano. E l’ultimo rapporto di Save The Children dedicato proprio alle mense lo dimostra in modo netto, arrivando a definire «preoccupante» il modo con cui il federalismo distorto della ristorazione scolastica produca nuove e inedite categorie di poveri. Il problema di partenza è il tempo pieno a scuola. Dove questa opportunità non è offerta, e dove non è possibile abbinare un servizio di refezione, i tassi di dispersione scolastica sono più elevati. Una condizione che riguarda soprattutto il Sud, ma non solo. In Italia il 40% delle scuole non ha un servizio mensa, e dove c’è non esiste una regola uniforme.

Ci sono città in cui non sono previste esenzioni specifiche in base al reddito o al numero di figli e altre in cui esistono scale di esenzione fin troppo elaborate e raffinate; città in cui il terzo figlio non paga nulla e altre in cui paga la tariffa piena; città in cui la tariffa minima è 2 euro e altre in cui la massima è ancora 2 euro. E poi Comuni in cui gli sconti si fondano sulla dichiarazione Isee, altri dove si guarda anche al numero di figli, alla presenza di disabili o a condizioni sociali particolari. Una regola non esiste, al punto che la stessa famiglia potrebbe trovarsi a pagare il triplo se dovesse trasferirsi ad esempio da Catania a Livorno o da Milano a un Comune più povero dell’hinterland.

La realtà di famiglie numerose e non ricche che si trovano a spendere molto di più rispetto a famiglie benestanti solo per il fatto di ricadere nei confini sbagliati non è così infrequente. E non è solo una questione di sconti. In alcune realtà si paga a consumo, in altre a forfait, in certi contesti chi non versa la quota si trova il figlio escluso dal servizio, in altri no, per non parlare delle scuole che hanno aperto al pranzo portato da casa dividendo i bambini in sale separate. Di fronte a una disparità di trattamento così elevata, il dibattito sul 'panino' portato da casa, o della milanese schiscetta (il portapranzo), di cui si è tanto parlato negli ultimi tempi, rischia di far perdere di vista il cuore del problema.


La mensa coi compagni non è solo un luogo in cui i bambini mangiano, ma è una formidabile occasione di educazione civica, ambientale, alimentare oltre che di convivialità. Uno studio condotto per il Ministero della Salute rivela come il 49% delle madri di figli sovrappeso consideri il proprio bambino nella norma e il 75% ritenga che la quantità di cibo assunta sia giusta. Per contro, un bambino ogni 20 in Italia non consuma nemmeno un pasto proteico al giorno. È anche per questo che parlare di mense e di un criterio per unire il Paese nel modo di nutrire i bambini significa fare politica familiare e sociale allo stesso tempo.

L’obiettivo di un pasto gratuito per i veri poveri, e di condizioni uniformi nel modo di far pagare il servizio alle famiglie, come nel concedere loro le giuste agevolazioni, non è fuori dalla portata di una buona politica. La vera fascia del bisogno oggi non si trova nella categoria che riceve una rendita fissa e garantita ogni mese, ma nei ceti popolari e in quelli medi impegnati a crescere e nutrire i propri figli.

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