No, la vita e la Chiesa non finiscono con la morte
sabato 26 aprile 2025

La Chiesa è viva, e sarà viva anche domani, dopo i funerali del Papa. Non ancora trionfante, si capisce. Per questo ci vorrà tempo. Ci vorrà, più esattamente, la fine del tempo: il gran finale dell’Apocalisse, che non per niente un credente inquieto e sincero come Ermanno Olmi considerava un perfetto lieto fine. Parlava da cristiano, ma anche da narratore, due dimensioni che – come Francesco ha dimostrato fino all’ultimo – non si contraddicono e anzi si esaltano a vicenda. Anche Gesù amava raccontare storie, storie magnifiche e semplici, inesauribili nella loro essenzialità. Ma una storia non può stare senza un finale e probabilmente è proprio la curiosità di sapere come va a finire la prima scintilla della speranza che i cristiani sono chiamati a diffondere nel mondo. Andrà a finire che non finisce, questo è il bello. Il gran finale è sempre un lieto fine.

«Nella mia fine è il mio principio», scriveva T.S. Eliot nei Quattro quartetti. A pensarci bene, per Jorge Mario Bergoglio è stato proprio così. Il Conclave del 2013 andò a sceglierlo «quasi alla fine del mondo», un’espressione che al Papa appena eletto parve uscire spontanea e che invece, come spesso sarebbe accaduto durante il suo pontificato, nascondeva una profonda sapienza spirituale. La chiave interpretativa sta in quel “quasi”, che indica un limite e intanto lo smentisce. Segna un confine e subito lo attraversa. Finché siamo nella storia, ogni fine è sempre quasi una fine. Si avvicina a un compimento, non lo realizza. Le favole non si concludono forse con la promessa che i protagonisti vivranno felici e contenti?

È il motivo per cui ci appassionano tanto: per via del lieto fine, che il più delle volte coincide con la famosa morale della favola. Sapere come va a finire non ci basta, vogliamo essere certi di aver imparato qualcosa. Vogliamo essere certi che la favola davvero ci riguardi. De te fabula narratur è, in fondo, la morale di ogni favola: questa storia ti riguarda, chiunque tu sia. Questa storia ci riguarda tutti, uno per uno. Qual è il significato del “quasi” di cui i funerali di Francesco offrono oggi testimonianza? Che la vita non finisce con la morte. E che la morte del Papa non è la morte della Chiesa. Non è questione di numeri, che pure hanno la loro utilità. I numeri sono un segno e di segni abbiamo bisogno. Anche Gesù ne era consapevole e per questo raccomandava di prestare attenzione al «segno di Giona», che è figura della Risurrezione, il gran finale per eccellenza. La vita che non muore, il corpo di gloria, il mondo che verrà.

Sinceramente, che altro si potrebbe desiderare dalla vita se non – appunto – che la vita non finisca? Sì, ci sono molti punti interrogativi in questo ragionamento, ma è stato Papa Francesco a insistere sull’importanza delle domande. Insieme con il racconto, la domanda è lo strumento di cui Gesù si serve più frequentemente. «Che cosa siete andati a vedere nel deserto?», chiede alla folla che si è riunita intorno a lui. In un altro momento, quando la folla si è dispersa, si rivolge ai Dodici con il perentorio e dolcissimo « volete andarvene anche voi?». E ancora, in riferimento esplicito al gran finale dell’Apocalisse: « Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». In nessuno di questi casi la risposta corrisponde a un numero. Che cosa cercate, che cosa siete disposti a mettere in gioco, in che cosa credete: sono le parole di un’esperienza, non le cifre di un bilancio. Sono gli elementi di un racconto, non i dati di un resoconto. Nella partita doppia, del resto, non c’è posto per il “quasi”. Ma è il “quasi” che davvero ci interessa. È grazie a quel “quasi” che la Chiesa è viva anche quando il Papa muore.

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