La cittadinanza sportiva un interesse nazionale
martedì 3 agosto 2021

Le Olimpiadi hanno uno strano e affascinante potere. Come i campionati europei o i mondiali di calcio riaccendono l’orgoglio nazionale, alimentando un senso di appartenenza e di identificazione collettiva difficile ormai da reperire altrove. Non solo: esercitano una sorta di magia inclusiva, facendoci esultare per gli atleti che rivestono la maglia azzurra, quale che sia il colore della pelle, il luogo di nascita, le origini familiari, il nome a volte complicato che portano. Le Olimpiadi ci fanno sentire gioiosamente fratelli d’Italia, e includono nella famiglia, soprattutto quando vincono, anche coloro che molti in altre circostanze vorrebbero escludere.

Se Marcell Jacobs non fosse stato italiano per parte di madre, è tutt’altro che certo che, con le norme attuali, avrebbe potuto essere cittadino del nostro Paese e conquistare per l’Italia, per la prima volta, la medaglia d’oro più illustre dei Giochi Olimpici, quella dei 100 metri piani. Spiace dirlo, ma Salvini disinforma gli italiani dichiarando che a 18 anni chiunque può diventare cittadino italiano. Non è così: ne ha diritto soltanto chi è nato in Italia e può dimostrare di essere sempre vissuto sul territorio nazionale.

Jacobs in Italia è arrivato all’età di 18 mesi, e quindi avrebbe dovuto seguire la lunga e complicata trafila della cittadinanza per residenza, gremita di ostacoli e soggetta alla fine a una valutazione discrezionale del Ministero degli Interni. Molti nostri studenti universitari ne sono ancora privi, benché abbiano ottenuto il diploma di maturità dopo anni di studi in Italia, proprio perché nati all’estero. Bene ha fatto dunque il presidente del Coni Malagò a porre il problema della 'cittadinanza sportiva'. Sa bene che il nostro Paese si priva di parecchi atleti che potrebbero rafforzare le nostre squadre nazionali poiché non soddisfano i requisiti per ottenere la cittadinanza italiana. Dal 2016 (meglio tardi che mai) una norma consente loro dall’età di 10 anni, se regolarmente residenti, di iscriversi alle federazioni sportive e quindi di gareggiare con i pari età. Ma la nazionale è un’altra storia, e passa attraverso la porta stretta delle norme sulla cittadinanza.

Sarebbe quindi ragionevole e opportuna, nell’interesse nazionale, una norma che accordasse una corsia privilegiata di naturalizzazione agli atleti cresciuti in Italia, allenati in Italia, maturati nelle competizioni italiane, e in grado di fornire un apporto significativo alle nostre rappresentative nazionali.

Il discorso però non dovrebbe fermarsi qui. La cittadinanza per meriti speciali dovrebbe valere anche in altri e decisivi settori. Il presidente francese Macron alcuni mesi fa ha accordato la cittadinanza ad alcune centinaia di immigrati che hanno contribuito con abnegazione e impegno esemplare a contrastare la pandemia: medici, infermieri, altri professionisti della salute e di settori diversi. In Italia l’esempio è rimasto fin qui lettera morta. Eppure abbiamo anche noi diverse migliaia di professionisti della sanità nati all’estero (22.000 medici, 38.000 infermieri e altri ancora), comprese purtroppo anche alcune vittime del Covid e del loro senso del dovere. Oltre a chi si è distinto per meriti straordinari, che giustificano corsie privilegiate e tempi accorciati, non si possono ignorare infine le legittime richieste delle persone normali: quelle che compiono ogni giorno il loro dovere, nel lavoro e nello studio, parlano italiano, allevano figli, pagano tasse e contributi, svolgono la loro vita sociale nelle nostre città. La loro prolungata esclusione dai diritti di cittadinanza ha un sapore d’ingiustizia sempre più obsoleto, ingiustificato, alla fine intollerabile.

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