mercoledì 31 maggio 2017
Con Bergoglio il gigante asiatico viene considerato come una realtà in sé, con una sua storia particolare. Una sfida necessaria per la pace mondiale
La Chiesa cattolica e la Cina un confronto oltre l'ideologia
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La Cina è stata a lungo considerata come un caso non riuscito della 'politica orientale' della Santa Sede: la grande azione diplomatica vaticana con i governi comunisti, che si è dispiegata nei Paesi dell’Europa dell’Est, avrebbe trovato un limite proprio nelle incomprensioni con il governo cinese. In realtà c’è stato anche un fallimento con l’Unione Sovietica, e, soprattutto, il modello della politica orientale – che ha il suo massimo artefice nel cardinal Casaroli – mal si attaglia alla Cina. L’idea che in Cina il confronto maggiore sia stato tra cattolicesimo e comunismo ha dominato l’orizzonte dei rapporti sino-vaticani per decenni e, per alcuni, continua a dominarli. Ma la realtà religiosa cinese va esaminata soprattutto in un’altra prospettiva. La politica orientale vaticana, alla Casaroli, non è stata l’unico strumento che la Santa Sede si trovava nelle mani. Giovanni Paolo II avrebbe voluto provare a stabilire nuovi rapporti. Ricordo due episodi degli ultimi anni di pontificato.

La decisione di canonizzare i martiri cinesi il 1 ottobre 2000, proprio nel giorno della festa nazionale della Repubblica popolare cinese fu una grave svista della Curia, che irritò molto il governo cinese. Giovanni Paolo II si preoccupò molto, volle inviare messaggi di stima alla Cina e indicò la linea di fondo di un articolo, da me scritto e pubblicato su 'L’Osservatore Romano', che fin dal titolo dice il pensiero del Papa: «Testimoni del Vangelo e amici dei cinesi».

Era come un groviglio di distanza e di incomprensioni. Ma, nel 2004, quando il Papa era ammalato gravemente, ricevendo una delegazione di intellettuali cinesi che lo invitò ad andare in Cina, si risvegliò da quello che sembrava uno stato di torpore e colse subito l’invito con parole entusiaste. L’insoluta 'questione cinese' è un grande vuoto nel pontificato wojtyliano nel cuore della globalizzazione, mentre la Cina – nel 2001 – entra nell’organizzazione mondiale del commercio. D’altra parte, durante un mio viaggio in Cina, mi sembrò percepire da parte di taluni dirigenti cinesi quasi il timore di un impatto di Wojtyla sul popolo cinese, peraltro impensabile per tanti motivi storici e attuali, quasi potesse essere il detonatore di movimenti civili di protesta.

La maturazione di nuovi strumenti avviene in un contesto nuovo, quello tracciato nel 2007 da Benedetto XVI con la «Lettera ai cattolici cinesi» . Proprio quest’anno sono dieci anni da quel documento. In questo periodo, la questione cinese resta, per alcuni settori cattolici, ancora legata simbolicamente alla tenuta dell’identità della Chiesa su temi fondamentali: accedere a una politica di negoziato sarebbe, pertanto, tradire l’identità della Chiesa, rinnegare i martiri, confondere i fedeli. In realtà la contrapposizione cattolica alla Cina ha anche un valore simbolico per l’Occidente: insomma un uso politico su altri scenari che non sono quelli cinesi. A questa sensibilità si unisce quella espressa dalla figura del cardinal Zen, che fa sue le ragioni della Chiesa clandestina, ma anche le proteste per la mancanza dei diritti umani. In pratica, una protesta civile.

La Santa Sede, in particolare monsignor Parolin, procede nei negoziati fino al 2009. Ma non solamente lui: anche la congregazione de Propaganda fide, allora diretta dal prefetto Sepe, cercava sul terreno quegli accordi di cui Ratzinger aveva parlato nel suo documento. In qualche modo il cardinal Dias prosegue questa linea. Questa stagione si interrompe con il trasferimento da Roma di Parolin come nunzio in Venezuela. Il nuovo pontificato, quello di Francesco, si colloca in questo contesto. Il Papa non è un diplomatico né riprende il filo di una 'politica orientale'. Non è nemmeno schiacciato su una contrapposizione con la Cina. Né appartiene a un mondo cattolico, piuttosto ideologico, per cui tenere duro con il governo di Pechino diventa una specie di 'principio non negoziabile'. La chiamata a Roma, come Segretario di Stato, di monsignor Parolin, è un segnale inequivocabile. Con Bergoglio, la Cina viene considerata come una realtà in sé, con una sua storia particolare, non come un sistema ideologico. Ciò comporta una sdrammatizzazione della questione cinese. Nel 2015, in aereo, il Papa dice: «…mi piacerebbe tanto andare in Cina. Amo il popolo cinese, gli voglio bene e mi auguro che ci siano le possibilità di avere buoni rapporti». Qui la Cina, per Francesco, diventa una realtà con cui comprendersi, dando per scontata l’amicizia.

Nella visione multipolare della Santa Sede, la Cina è un player di grandissimo rilievo: è decisiva per raggiungere l’armonia necessaria per la pace mondiale. Non si tratta di sacrificare i cattolici cinesi sull’altare degli interessi internazionali o della ragion di Stato, ma di dare ai problemi le loro dimensioni. Nella visione di papa Bergoglio non si tratta solamente di rispettare da parte della Chiesa i governi legittimi (come aveva già detto Benedetto XVI), bensì del rapporto tra la Chiesa e una grande civiltà. E qui si staglia la figura di Matteo Ricci che ha una grande portata simbolica per i cinesi, e che rappresenta un metodo per avvicinare il cristianesimo alla cultura cinese. Sappiamo come papa Francesco si ritrovi nel gesuita Ricci, nel suo metodo di inculturazione, nel fatto che la stima per la civiltà cinese e l’amicizia per i cinesi siano essenziali per affrontare questo mondo. La Cina ha una sua storia davvero peculiare, non facile da leggere con le categorie correnti.

Cina e Chiesa sono due mondi, molto diversi certo, asimmetrici, che si intersecano nella realtà del cattolicesimo cinese, ma che hanno un raggio d’azione mondiale. Il tratto, culturalmente interessante, da sottolineare, è che il Papa riconosce con chiarezza la peculiarità della storia cinese, che significa non demonizzarla anche se non la si santifica nemmeno. Non posso pronunciarmi sui negoziati tra Santa Sede e Cina negli anni di Francesco, perché non abbiamo la documentazione sotto gli occhi. Noto che la deideologizzazione della questione ha portato anche a comprendere meglio le reazioni nel mondo del cattolicesimo cinese, anche quello clandestino. Significativa è stata l’intervista di monsignor Jia Zhiguo, vescovo ottantunenne, 'decano' dei clandestini, il quale aveva dichiarato nel 2016: «Ci fidiamo del Papa. Non ci preoccupiamo. Sappiamo che il Papa non rinuncerà alle cose essenziali che fanno parte della natura della Chiesa». È una voce che getta luce su un sentire, non sempre rappresentato da blog o stampa, ma che si caratterizza per un sodo sentire cattolico.

Papa Francesco, nel 2016, ha dichiarato che tra Vaticano e Cina «si sta parlando, lentamente... Le cose lente vanno bene, sempre. Le cose in fretta non vanno bene». Giustamente due mondi, per così dire, non si ravvicinano rapidamente. Pesa il tempo perduto. Soprattutto la Cina cambia con una velocità che non sempre è facile percepire dall’Europa. Cambia la geografia urbana e umana dove vive il cattolicesimo. Ci sono necessità profonde del cattolicesimo cinese di accedere a quadri più sicuri per affrontare nuove sfide. Francesco scrive nell’Evangelii Gaudium: «... il tempo è superiore allo spazio». Francesco ha ragione. Tuttavia – mi piacerebbe aggiungere – il tempo è la vita degli uomini e delle donne, è una serie di occasioni da cogliere oggi, una serie di dolori da consolare, di possibilità che forse non si ripetono. Piacerebbe vedere l’accelerazione dei processi storici iniziati, anche se oggi ho la convinzione che tali processi sono comunque in corso tra Santa Sede e Cina, tra Chiesa e civiltà cinese.

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