E l'America lo sa meglio dell'Europa
venerdì 25 marzo 2022

Quando un mese fa lo ha detto Vladimir Putin, nessuno gli ha dato retta. Ora che lo ha detto il suo portavoce, e il presidente russo ha mostrato di che cosa è capace, politici e media cominciano a preoccuparsi. La Russia ha le armi nucleari e, ha affermato il signor Dmitrij Peskov, se sentisse minacciata la propria sicurezza, potrebbe usarle. In effetti Mosca dispone di circa 1.600 testate nucleari di medio raggio, puntate quasi tutte verso l’Europa. Così come possiede 'piccole' bombe nucleari tattiche destinate al campo di battaglia.

È evidente che l’impiego a scopo dimostrativo anche di una sola di esse (per non parlare di un incidente o di un 'equivoco' nella catena di comando russa) innescherebbe nelle forze Nato una reazione capace di percorrere in breve tutti i gradini dell’escalation, sino a un conflitto nucleare generalizzato. La rimozione dell’opzione nucleare e dello scenario di distruzione che essa comporterebbe è uno degli aspetti più sconcertanti della guerra in Ucraina. Il primo di essi è il divario nella percezione del problema tra il governo americano e quelli europei. All’aggravarsi della crisi, il presidente Joe Biden ha esplicitamente escluso un intervento militare americano e Nato, anche a costo di meritare le critiche di osservatori come l’ex premier britannico Tony Blair. Così come ha negato al presidente Zelenski la no flight zone nei cieli ucraini, consapevole che anche il semplice contatto radar tra un aereo dell’Alleanza Atlantica e un aereo russo avrebbe potuto dare inizio alla Terza guerra mondiale.

A fronte della cautela degli Stati Uniti d’America, la maggiore potenza militare e nucleare del mondo, presso la quale gli Stati maggiori riuniti e il Consiglio di sicurezza della Casa Bianca sanno bene di che cosa si sta parlando, nell’Unione Europea molti non hanno la stessa competenza.

A giudicare dalla superficialità del discorso pubblico, c’è da pensare che la generazione dei quaranta-cinquantenni non abbia un’adeguata memoria della storia della deterrenza nucleare ai tempi della 'guerra fredda'. Cioè di quell’equilibrio tra le due superpotenze Stati Uniti e Unione Sovietica che veniva, sì, definito «del terrore», ma che ha funzionato per quasi mezzo secolo. Fondamentale, in esso, era il tabù della Bomba (atomica).

Un convitato di pietra perennemente presente sulla scena ma, per un tacito accordo fra entrambe le parti, immobilizzato a causa proprio della sua colossale potenza. Washington e Mosca, divise su tutto, concordavano su un dato: qualunque ricorso anche alla più miniaturizzata delle sue versioni avrebbe dato il via all’olocausto nucleare. In conseguenza di ciò, un muro simbolico si ergeva su qualsiasi scorciatoia che pretendesse di lucrare guadagni strategici sulla minaccia di usare le armi nucleari. Quando nel 1962 Nikita Kruscev tentò di eludere la regola installando i missili sovietici a Cuba, John Kennedy fu irremovibile nell’ultimatum di rimuoverli immediatamente.

Cosa che, dopo vari tentennamenti che per alcuni giorni tennero il mondo col fiato in gola, il capo del Cremlino dovette fare, indirettamente riconoscendo la mossa gravemente avventata. Sfortunatamente nel mondo post-bipolare le regole non scritte della deterrenza – parliamo di un caposaldo del realismo strategico, non delle cosiddette 'utopie' del pacifismo – sono ormai logorate e rischiano di essere spazzate via per sempre. Essere preoccupati delle conseguenze di una crisi della portata di quella attuale non è immorale. Al contrario, è la morale della responsabilità che si fa carico delle conseguenze più ampie, nel contesto, nel tempo, nella natura della minaccia incombente.

Ogni giorno che passa di questa orribile guerra, aumenta la minaccia. L’unica soluzione è politica, e risiede in un compromesso che ponga fine alle sofferenze del popolo ucraino, contemporaneamente lasciando aperto il futuro a uno sviluppo di pace e democrazia per uno Stato unito e sovrano che nessun vicino potrà più minacciare.

Presidente di Archivio Disarmo

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