sabato 18 gennaio 2014
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Nel commentare una mia analisi apparsa su "Avvenire" lo scorso 10 dicembre, dedicato al tema delica-tissimo dell’ omogenitorialità, Armando Massarenti, sull’ultimo "Domenicale" del "Sole24 ore" del 2013, registra a mio carico un deficit di informazione e mi dà indicazioni di lettura, di cui non posso che essergli grato, anche se si tratta di pagine da me assimilate da tempo (come è il caso del libro di Remotti "Contro natura", il cui curioso sottotitolo, "Una lettera al Papa", mi aveva indotto a scrivere un commento, apparso sempre su "Avvenire", ma evidentemente sfuggito a Massarenti). La questione, però, non è chiaramente quella della quantità o della qualità delle mie letture, ma di come una persona, che non voglia lasciarsi travolgere dalle ideologie del politicamente corretto, debba prendere posizione nei confronti delle rivendicazioni coniugali e genitoriali dei gay.Mi pare di capire che Massarenti prenda per assolutamente consolidata l’opinione dell’Organizzazione mondiale della Sanità, che considera l’omosessualità «una normale variante del comportamento umano» e qui starebbe a me dargli indicazioni di lettura, almeno per mostrare quanto questa non sia una dottrina scientifica rigorosamente fondata, ma una "opinione", dai fragilissimi fondamenti epistemo-logici. Essa infatti riposa sulle risultanze non di adeguate ricerche scientifiche, ma di un curioso questionario che l’Apa, l’American Psychological Association rivolse ai propri iscritti: a tale questionario risposero solo diecimila soci – su un totale di più di centotrentamila – e tra questi diecimila si riscontrò una maggioranza, non strepitosa, del 58% a favore della cancellazione dell’omosessualità dal novero delle patologie). Peraltro, nell’editoriale cui benevolmente si è riferito Massarenti, non avanzavo affatto questi argomenti per sparare a zero sulla psicologia. Mi interessava, e mi interessa davvero molto di più, richiamare l’attenzione sul fatto che la questione omosessuale va molto al di là del mero terreno della psicologia e possiede una valenza ben più ariosamente antropologica. Massarenti, riducendo l’antropologia a etnologia, sembra non avvertire che la prima dimensione dell’antropologia non è quella etnologica, ma quella filosofica (cosa strana, dato lo spazio che per suo merito la filosofia ha sul "Domenicale").Capire l’uomo implica percepire il carattere fondativo del dualismo uomo/donna, che non solo condiziona l’auto-interpretazione psicologica dell’io, ma è anche il presupposto dello sviluppo delle sue capacità cognitive: un tema, questo, che è stato molto caro anche ai sociologi, tra cui in particolare Niklas Luhmann. Il cardine di questo discorso è che l’essere dell’uomo e tutte le sue capacità cognitive sono caratterizzati da un dualismo radicato nella presa di coscienza della differenza sessuale, un dualismo le cui ricadute etnologiche e storiche sono semplicemente sconfinate; un dualismo che, pur producendo come suoi effetti secondari deformazioni di vario tipo (tra cui quello che chiamiamo comunemente il "maschilismo"), ha però reso possibile il distacco radicale dell’uomo dalla sua animalità biologica, consentendo la formazione dei sistemi familiari e, tramite questi, di quelli politici. Chiedersi se tale dualismo sia antropologicamente superabile, cancellando tutte le istituzioni e combattendo tutte le pratiche sociali "sessuate" equivale a chiedersi se l’uomo possa diventare altro da ciò che è: insomma non è certo questione da affidare agli psicologi o agli etnologi, dato che investe tutte, propriamente tutte, le dimensioni dell’humanum.Per questo ritengo che la banalizzazione della differenza sessuale, oggi così dilagante nelle culture secolarizzate occidentali, non sia una cosa seria, da un punto di vista antropologico-filosofico e non semplicemente psico-etnologico. Di qui la mia convinzione che non si tratti di un pregiudizio l’idea che non sia un bene per un bambino crescere in un contesto di omoparentalità e soprattutto che non si possa ritenere davvero dimostrata l’opinione contraria, difesa da Massarenti. A fronte di un’esperienza storica plurimillenaria radicata nell’eterosessualità, nella quale le dinamiche omosessuali rappresentano fenomeni assolutamente di nicchia e generalmente occultati, le esperienze omoparentali che oggi vengono studiate sono almeno quantitativamente ben poca cosa (anche perché non è difficile percepire quanto siano inquinate da atteggiamenti "di favore", essi sì davvero pregiudiziali, che arrivano a sostenere il primato di queste esperienze su quelle eteroparentali!). Siamo tutti d’accordo (o almeno lo spero) nel difendere il sacrosanto diritto delle persone gay a non essere vittime di alcuna forma di discriminazione (e a maggior ragione di violenza), ma non riesco a considerare una decisione saggia (per riprendere l’espressione di Massarenti) quella di difendere i "diritti dei gay" alterando il carattere eterosessuale che da millenni caratterizza il matrimonio e la famiglia.
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