sabato 17 aprile 2010
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L'incontro dei rappresentanti diplomatici italiani con i tre operatori di Emergency arrestati dalle autorità afgane, a sei giorni dall’irruzione nell’ospedale di Lashkar Gah, apre un primo spiraglio di luce in una vicenda che resta per molti versi opaca, sia nella sua genesi che nello snodarsi dei suoi capitoli successivi. Il momentaneo sollievo dei familiari, tempestivamente informati dalla Farnesina; le sfumature cautamente ottimistiche leggibili nelle scarne dichiarazioni del nostro ambasciatore a Kabul e del suo collega Iannucci, giunto appositamente da Roma; la fine apparente della ridda di indiscrezioni, smentite e mezze conferme che hanno caratterizzato le prime giornate del caso: sono questi tutti elementi che inducono a sperare in uno sbocco positivo il più possibile celere e, perché no, trasparente.Resta tuttavia chiaro che la fase dell’impegno accorto e dello sforzo corale per accertare il destino dei nostri connazionali, ma prima ancora per la piena tutela dei loro diritti, non si può certo considerare conclusa. Le stesse modalità del contatto concesso ieri, con incontri separati per non più di 15-20 minuti a testa, con l’obbligo di parlare in inglese per consentire il controllo delle conversazioni, con la limitazione di discutere soltanto le loro condizioni di salute e di detenzione, dimostrano che da parte afgana è stato compiuto niente più di un primo passo verso la "normalizzazione" di una procedura per troppi aspetti anomala.Uno dei motivi di sconcerto che l’italiano medio, ignaro dei mille possibili giochi interni allo scenario del conflitto, può legittimamente esprimere è in effetti proprio questo: come è possibile che un Paese da noi aiutato da anni, con truppe e operatori civili di ogni genere, con finanziamenti e interventi umanitari di varia natura, al costo di tante vite umane oltre che di parecchie centinaia di milioni di euro l’anno, impieghi tanto tempo a consentire un minimo flusso informativo verso il nostro governo. Quale considerazione hanno a Kabul di quello che facciamo per loro?Lo sconcerto potrebbe poi aumentare, riflettendo su un dettaglio di cui forse l’opinione pubblica non è al corrente: e cioè che diversi giuristi italiani hanno collaborato in tempi recenti alla stesura della nuova Costituzione e dei Codici penali e civili locali, nel tentativo di dare alla legislazione del rinascente Afghanistan post-talebano una cifra democratica e garantista. Ebbene, l’operazione condotta sabato scorso nel capoluogo dell’Helmand e le modalità che l’hanno accompagnata sembrano in plateale contrasto con i principi che siamo stati sollecitati a definire e a trasmettere. Come spiegare altrimenti che, anche dopo l’incontro con gli ambasciatori italiani, i legali dei tre cooperanti non siano ancora stati autorizzati a incontrare i loro assistiti?Ma, ripetiamo, aldilà delle perplessità, delle recriminazioni e del sacrosanto allarme, resta ora di gran lunga prevalente la necessità di conseguire lo scopo principale: tutelare, assicurare una giusta difesa e – ce lo auguriamo – riportare a casa quanto prima i tre italiani in mano alla security nazionale afgana.A questo scopo non sarà indifferente neppure il clima della manifestazione che i vertici di Emergency hanno indetto per oggi a Roma. Nessun dubbio che la protesta e la solidarietà siano un diritto e in qualche modo anche un dovere. Perché non va dimenticato che chi lavora da anni a curare e a salvare vite umane alla luce del sole non può essere trattato da bieco intrigante. Ma proprio nel momento in cui si registrano i primi segnali di apertura, conviene a tutti mantenere i nervi saldi e rinunciare a rivalse polemiche – e politiche – controproducenti. La moderazione mostrata ieri da Gino Strada e il suo appello a non strumentalizzare il raduno di San Giovanni sembrano averlo inteso. Speriamo che la piazza non lo smentisca.
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