giovedì 24 novembre 2016
Al top nella ricerca scientifica, in coda per i sostegni.
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Pur fra tante criticità che caratterizzano la situazione del Paese, il settore della ricerca scientifica risulta l’ambito nel quale, anche negli anni di crisi, l’Italia è riuscita a dare un contributo significativo a livello mondiale grazie alla produttività dei propri ricercatori. Secondo il Programma nazionale per la Ricerca 2015-2020 ci collochiamo all’ottavo posto per numero di pubblicazioni scientifiche, con più di 1,2 milioni di pubblicazioni nel periodo 1996-2014, il livello delle citazioni scientifiche è comparabile a quelli di Germania e Francia, e possediamo un bacino di piccole e medie imprese tra le più innovative in Europa. Dal punto di vista del rapporto tra investimenti in ricerca e sviluppo e pubblicazioni, raggiungiamo il terzo posto dopo Regno Unito e Canada, ed i brevetti hanno raggiunto secondo l’European Patent Office la quota di successo del 2%, che ha portato l’Italia al decimo posto in Europa. Molto meno brillante è la situazione dal punto di vista degli investimenti e del sostegno dei giovani ricercatori. Per quanto riguarda gli investimenti, la spesa pubblica per ricerca e sviluppo tocca uno scarso 1,3% del Prodotto Interno Lordo italiano, lontano dagli obiettivi posti dalla Unione Europea (3%) e a livello nazionale (1,53%).

Anche se va riconosciuto che tra 2012 e 2013 siamo passati da 20.502 milioni di euro a 20.983, ed i ricercatori erano nel 2013 246.764, il 2,7% in più rispetto al 2012. Ma è soprattutto la questione dei giovani che preoccupa, una situazione rispetto alla quale nel 2014 il Censis parlava di 'capitale inagito'. La mancata ottimizzazione dei nostri talenti si riscontra negli oltre 3 milioni di disoccupati, quasi 1,8 milioni di inattivi perché scoraggiati, e 3 milioni di persone che non cercano attivamente un impiego ma sarebbero disponibili a lavorare, di cui una fetta consistente è data da giovani. In particolare i 15-34enni costituivano nel 2014 il 51% dei disoccupati totali, ed i Neet (i 1529enni non impegnati né nello studio né nel lavoro) erano cresciuti da 1.832.000 nel 2007 a 2.435.000 nel 2013. Una parte del capitale umano risulta sotto inquadrato ed il fenomeno dell’overeducation riguarda anche i laureati in scienze economiche e statistiche (il 57,3%) e persino un ingegnere su tre. A ciò si aggiungono il tasso di istruzione terziaria nella fascia di età 30-34 anni, pari al 23,9% (nel 2014), tra i più bassi dell’Ue e al di sotto dell’obiettivo nazionale per il 2020 (26-27%), ed il tasso di abbandono scolastico, pari al 23,9% sempre nel 2014.

Come analizzato nella recente pubblicazione dell’Istituto S. Pio V , un recente lavoro realizzato dall’Università La Sapienza sugli sbocchi dei laureati di quell’Ateneo tra 2008 e 2013 ha permesso di verificare, rispetto ai 61.782 dei 105.876 laureati tra 2008 e 2012, e fino a fine 2014, una situazione di 'incredibile precarietà' e di grande adattamento. Per quanto riguarda il settore della ricerca, in particolare, i rapporti di lavoro più qualificati (le cosiddette professioni intellettuali e scientifiche) registrano un numero medio molto elevato di contratti brevi, e dunque una volatilità forte. Tra le 20 qualifiche previste, solo i ricercatori e tecnici laureati nelle scienze della terra compaiono al 17° posto della graduatoria generale, solo il 32% ha goduto di una coerenza dei lavori svolti con gli studi effettuati, ed i lavori svolti dal 44,3% risultano nettamente incoerenti. Debolissime, dal punto di vista della loro frequenza, le esperienze lavorative in altri ambiti della ricerca (dalla biologia, alle scienze mediche, matematiche, economiche, ecc.).

Non meraviglia quindi che la carenza di posti di lavoro qualificati stia diventando un fattore propulsivo per la mobilità in uscita di molti giovani italiani. Per quanto riguarda il Mezzogiorno, Confcooperative e Censis hanno segnalato nel maggio 2016 il trasferimento in un anno di 31.000 laureati verso il nord (26.000) o verso l’estero (5.000), a fronte dei 24.000 del 2013. Nell’anno accademico 2014-2015 23.000 studenti universitari meridionali si sono spostati nelle medesime direzioni. La perdita in termini economici è stata stimata in 540 milioni di euro/anno per i 5.000 trasferiti all’estero e in poco più di 2,8 miliardi di euro/anno per i 26.000 nel Centro-Nord. In totale 3,3 miliardi di euro come riduzione di opportunità per i territori meridionali, che pure hanno contribuito alla formazione di quei giovani. Per quanto riguarda in generale le migrazioni qualificate verso l’estero, secondo l’Istat già nel 2011 risiedevano all’estero il 2,6% dei neo-laureati italiani, il 4,1% dei laureati in materie scientifiche, il 3,8% dei laureati in ingegneria ed il 3,6% dei laureati in materie politicosociali, e la tesi di chi richiama l’attenzione sulla cosiddetta 'fuga dei cervelli' è confermata dal fatto che nel 32% dei casi si tratta di persone con livello di istruzione terziario e nella maggior parte dei casi (il 51,6%, pari a 42.342 persone) di giovani tra i 18 e i 39 anni, cioè tra la fase conclusiva della formazione e l’inserimento lavorativo. Secondo il Censis, delle circa 1.130.000 famiglie italiane (il 4,4% del totale) che hanno avuto nel corso del 2013 uno o più componenti residenti all’estero (cui si aggiunge un altro 1,4% di famiglie in cui uno o più membri era in procinto di trasferirsi), chi se ne è andato lo ha fatto per cercare migliori opportunità di carriera e di crescita professionale (il 67,9%), per trovare lavoro (51,4%), per migliorare la propria qualità della vita (54,3%) e per fare un’esperienza di tipo internazionale (43,2%), ed il difetto più intollerabile dell’Italia è l’assenza di meritocrazia.

Che il nostro sia un paese poco attento alla promozione e tutela della componente giovanile della popolazione è cosa nota, e molti sono gli ambiti nei quali sarebbe necessario attuare una chiara inversione di rotta, in termini di investimenti, misure di sostegno, interventi formativi, ecc., come più volte sottolineato. La situazione particolarmente critica delle professioni intellettuali e del ruolo dei giovani nella ricerca meriterebbe però di essere affrontata con particolare incisività, in quanto collegata strettamente anche alla ripresa dello sviluppo ed al superamento della crisi. Il contributo che i giovani possono dare in termini di innovazione e creatività è molto consistente, ed al tempo stesso le attività imprenditoriali e scientifiche innovative sono le uniche in grado di sovrastare gli effetti negativi della saturazione dei mercati e della crisi di liquidità. Le due dimensioni si collocano quindi al crocevia delle scelte più urgenti da compiere oggi, e la mancata attenzione nei loro confronti rischia di perpetuare a dismisura il corto circuito negativo dato dalla emorragia di risorse e di capitale sociale, da un lato, e dall’arretramento del paese nel contesto internazionale, dall’altro.

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