Iran, le impunità di un regime
giovedì 21 dicembre 2023

Lo stato di salute di un regime, insegna la storia, lo si misura tristemente dal numero di esecuzioni. Senza scomodare termidori o terrori rivoluzionari, il regime degli ayatollah iraniani ha messo a morte quasi ottocento persone da gennaio a oggi. Battendo ogni record, tranne – forse – quello non quantificato delle esecuzioni cinesi. Diciotto delle ottocento persone alle quali è stato passato il cappio intorno al collo erano donne. Samira è solo l’ennesima, non certo l’ultima. La sua vita non è finita ieri, a 29 anni, ma quando ne aveva solo 15 ed è stata data in sposa a un uomo più grande di lei. Uomo che l’ha sottomessa, picchiata e umiliata. Samira, dopo quattro anni, non ce l’ha più fatta e lo ha ucciso.

Per questo l’hanno condannata a morte. Poche ore prima di venire impiccata, per la prima volta in dieci anni, ha rivisto i figli e la sua famiglia. Poi il buio su di lei, quello del cappuccio che le hanno infilato in testa prima di farla crollare a peso morto dal patibolo. Il buio di un regime dell’impunità. Delle esecuzioni capitali, delle donne che spaventano perché si levano il velo, perché gridano nelle piazze e per questo vengono massacrate di botte in una stazione di polizia come Mahsa Amini. I suoi parenti il regime li ha trattati come terroristi: non li ha fatti espatriare impedendo loro di ritirare a Strasburgo il premio Sakharov dell’Unione Europea per i diritti umani. Due termini, diritto e umanità, che il popolo persiano non conosce da decenni. Un popolo passato dalla rivoluzione verde alla repressione di Ahmadinejad. Dalle proteste del settembre scorso, dopo la morte di Mahsa, fino al divieto di vedere in televisione la consegna a Oslo del Nobel per la Pace a una donna iraniana: una pergamena appoggiata su una sedia vuota. Vuota perché queste madri, figlie, sorelle, nipoti non le uccide solo il boia, le stronca anche il buio. Il buio di una cella dove Narges Mohammadi vive in esilio dal mondo, dalla luce e dalle parole. Come quelle che la Nobel l’altro giorno è riuscita a “liberare” dal carcere, in un messaggio in cui chiama il Tribunale rivoluzionario «un mattatoio per i giovani di questa terra».

Il regime dei pasdaran non ha paura che di sé stesso: sa che dentro di lui agisce già quel tarlo che prima o poi lo farà franare. Per ora uccidere è facile, governare con il terrore e la vendetta lo è altrettanto.

Ma c’è da chiedersi fino a quando l’Iran degli ayatollah potrà appoggiare le azioni di Hamas e allo stesso modo trattare con gli americani il rientro nel trattato sul nucleare o la consegna di prigionieri in cambio di denaro. E fino a che punto un regime che arma i ribelli Houthi in una guerra, prima nel deserto e ora all’Occidente, potrà godere allo stesso modo di impunità. Un regime, quello iraniano, che mette sotto il tappeto le risoluzioni dell’Onu e poi allo stesso organismo internazionale chiede di tutelare la libertà di produrre uranio arricchito con tecnologia russa.

Putin e in seconda battuta la Cina di Xi Jinping possono forse contribuire, almeno in parte, a fare comprendere perché qualsiasi atto ostile contro Teheran venga cassato da membri permanenti di un’istituzione (come il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite) che ormai ha fatto da tempo il suo tempo. E ancora: fino a che punto la sentenza di morte per un dissidente continuerà a essere scritta prima di un arresto, mentre il governo a livello internazionale non esiterà a invocare il principio della non ingerenza? C’è contraddizione in tutto questo? Sì, perché quella regna sempre sovrana.

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