«Io, prigioniero in fuga e straniero, sfamato nel '45 da cristiani»
sabato 24 febbraio 2018

Caro Avvenire,

in tempi in cui la parola “prossimo” raramente si coniuga con l’invito cristiano all’amore vorrei raccontare una storia vera occorsami a fine guerra, nel 1945. Allora avevo venti anni. Ora ne ho novantatré.

Era la fine di marzo di quell’anno, in tempo di Pasqua, e mi trovavo internato in un campo di lavoro forzato in Germania. L’esercito americano era vittorioso e quello tedesco in rotta. Una notte fui svegliato dalle cannonate dei carri armati americani non molto distanti dal campo. C’era fermento, e allora ne approfittai e, confidando in Dio, decisi per la libertà, fuggendo e nascondendomi in un bosco. Passarono tre giorni e finalmente scorsi sulla strada nella pianura sottostante i carri armati americani in fila in direzione est. Pensai allora di uscire dal bosco e di accodarmi. Avevo fame e cominciava a piovigginare. Gli americani arrivarono a un piccolo paese sul Meno, chiamato Mondfeld. Lungo la strada in silenzio c’era la popolazione, fatta di vecchi, donne e bambini; alle finestre erano appese lenzuola e tovaglie bianche in segno di resa. Avevano paura. Anche nei miei confronti. Il mio aspetto non era certo rassicurante: avevo la barba lunga e indossavo la tuta da lavoro sporca di fango. Mi rivolsi agli americani e nell’inglese imparato a scuola chiesi cibo e riparo dalla pioggia che si stava infittendo, ma nessuno mi dava retta. Mi rivolsi allora ai paesani che mi stavano attorno, offrendomi di lavorare, ma anche da loro non ebbi alcuna risposta. Ebbi paura. Ero stanco, affamato, bagnato di pioggia, senza un soldo, senza un riparo, con la mia famiglia lontana e di cui non sapevo nulla. Era il Lunedì dell’Angelo e a un tratto un ragazzino sui dieci anni mi toccò e mi disse «Komm mit!», cioè, vieni con me. Lo seguii e arrivai a una povera casupola. C’era un vecchio affacciato il quale scambiò poche parole col ragazzo e poi mi fece segno di entrare, senza chiedermi nulla. Mi apparvero alcune persone – due donne e tre bambini – in silenzio, in piedi intorno a un tavolo su cui figuravano alcune fette di pane e come una grossa polenta, di purè di patate. Stavo per sedermi, ansioso di affondare il mio cucchiaio, quando il vecchio, in piedi, fece il segno della croce e cominciò a pregare: «Im Namen des Vaters, des Sohnes... ». Il Segno della Croce. Seguito dal Padre Nostro. Allora mi unii a loro in italiano.

Mangiai. Finalmente! Si erano fatte le otto di sera. Il vecchio capì che ero stanchissimo. Mi disse che in casa non aveva posto e mi indicò la stalla. Mi ci accompagnò e con il tridente mi preparò un giaciglio. Non mi chiese chi fossi. Dormii profondamente fino all’alba. Mi alzai e mi diressi verso la legnaia per iniziare il mio lavoro, ma il vecchio mi indicò la porta della cucina. Lì sua moglie mi aveva preparato una tazza di latte, due fette di pane e una mela. Dopo colazione tornai nella legnaia per segare i molti rami accatastati e predisporli in pezzi idonei per la stufa. Passò una settimana. Con me parlava solo il ragazzetto; gli dissi il mio nome e che ero un internato italiano, un nemico per i tedeschi. Suo padre era il fabbro del paese, il ragazzo aveva undici anni e si chiamava Albert. Alla domenica non vollero che lavorassi. Andai a Messa. Tutti in chiesa mi guardavano incuriositi senza parlare. Dopo tre settimane, venni a sapere che nella vicina città di Aschaffenburg gli americani avevano allestito un campo per profughi in attesa di rimpatrio. C’erano italiani, russi, francesi, polacchi, iugoslavi, lettoni. Allora decisi di unirmi a loro e di lasciare il fabbro. Nel salutarmi, mi regalò una giacca, un po’ di prosciutto e due marchi. Ringraziai per quanto quella famiglia, anche se povera e nei confronti di un nemico, aveva fatto per me. Avevo incontrato dei veri cristiani e io facevo parte del loro prossimo. Non li ho mai più dimenticati. Avevo trovato Gesù!

Federico Roberto Lisciandrano Segrate (Mi)


Sono passati oltre settant’anni, ma la memoria di chi scrive dipinge netta, tanto che sembra di vedere. Quel giovane prigioniero con addosso una tuta sporca di fango, straniero, cui nessuno dà retta: né l’esercito avanzante dei vincitori, né la gente di Mondfeld, sul Meno, che lo osserva diffidente. Piove, e fa freddo ancora in Germania, a fine marzo. Chissà che freddo nelle ossa dopo la fuga nei boschi, chissà che fame, quel ragazzo smarrito, la barba lunga, e tanto lontano da casa. Uno solo, nella folla, ne prova pietà: un bambino. « Komm mit », gli dice, vieni con me. Arrivano a una casa modesta. C’è un uomo che il lettore definisce «vecchio», ma che forse aveva cinquant’anni, se era il padre del ragazzino. Poche parole scambiate in tedesco, nessuno che domandi allo sconosciuto: chi sei? E poi la porta che si apre su una cucina dove la famiglia intera è radunata attorno a una polenta. Il giovane italiano muore di fame col suo cucchiaio in mano, ma, un momento, il vecchio si alza in piedi: « im Namen des Vaters, des Sohnes... », «In nome del Padre, del Figlio... ». È una casa di cristiani. Chi ha insegnato a un bambino di undici anni quello sguardo che ha riconosciuto un povero, e lo ha portato a casa? Che lo ha fatto certo che i suoi lo avrebbero accolto. Fiducioso, perché a casa gli avevano sempre detto: se incontri un povero, portalo qui, un pezzo di pane ci sarà anche per lui. E un tetto, sia pure una stalla, calda però, al tepore delle bestie, e asciutta. Fuori, sfila la guerra che consuma i suoi ultimi giorni, marciano i carri armati dei vincitori. Il popolo stende lenzuola bianche in segno di resa e sta a guardare, atterrito. È tempo di paura, e forse di vendette; pietà, non ce n’è per nessuno. Salvo che negli occhi di quel bambino, Albert, e dei suoi. «Komm mit». E poi quelle parole straniere, ma come familiari, proclamate dal padre, in piedi davanti alla tavola, che subito il fuggiasco riconosce. Con un respiro di sollievo e gratitudine. Quella casa, è di cristiani. Quanto ci insegna il nitido ricordo di un uomo di novantatré anni. Sarebbe, breve com’è, da leggere nelle scuole. In tempi in cui la parola “straniero” è diventata quasi sinonimo di nemico, di pericolo. Non somigliava, il giovane sporco di fango, spaventato e affamato, a tanti profughi di oggi?

Un uomo giunto alla estrema vecchiaia guarda i nostri giorni, e quasi si sente in dovere di ricordare e di dire: anche io ero straniero e persino nemico, e dei cristiani mi hanno accolto. Stiamo ad ascoltare. Un testimone ci lascia la sua memoria. Conserviamola. Splende, questa spoglia pagina di diario, di una luce preziosa.

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