Invalidi, ferita da sanare
mercoledì 20 ottobre 2021

Sui disabili grava una doppia ingiustizia – economica e sociale – che il governo dovrebbe sanare al più presto. Già con la Legge di Bilancio di cui ieri il Consiglio dei ministri ha delineato la cornice di massima.

Recependo alcune pronunce della Cassazione, infatti, l’Inps cinque giorni fa ha comunicato che l’assegno di invalidità verrà erogato solo alle persone di cui risulti «l’inattività lavorativa», oltre che il rispetto del limite reddituale (oggi fissato in 4.931 euro l’anno). Così, le persone con invalidità parziale tra il 74 e il 99% per poter beneficiare ancora dell’assegno – che attualmente ammonta a 287 euro al mese – non dovranno svolgere alcuna attività lavorativa, di nessun tipo. Finora, invece, veniva considerato di fatto il solo requisito reddituale e quindi era possibile per coloro che presentano una «ridotta capacità lavorativa» (non completa come è per gli invalidi totali) di utilizzare le residue potenzialità per lavorare. Adesso, invece, la lettura più restrittiva della norma istitutiva dell’assegno di invalidità – per come è stata modificata dal governo Prodi nel 2007 (legge 247) e ribadito in due recenti sentenze della Alta corte (17388/2018 e 18926/2019) – mette i disabili parziali di fronte a una scelta drammatica e ingiusta: dover rinunciare o all’attività lavorativa o all’assegno.

Si tratta, appunto, di una doppia ingiustizia, innanzitutto perché l’importo dell’assegno di invalidità è oggi stabilito a un livello che non permette neppure la sopravvivenza. O, per dirla con le parole della Corte costituzionale, «non è sufficiente a soddisfare i bisogni primari della vita. È perciò violato il diritto al mantenimento che la Costituzione (all’articolo 38) garantisce agli inabili al lavoro», come sentenziò lo scorso anno, obbligando il legislatore a innalzare a più del doppio quell’importo dell’assegno.

Per i soli invalidi al 100%, però, lasciando invece al palo gli altri classificati dal 74 al 99%. Scelta discutibile, quest’ultima, ma almeno finora ai disabili parziali era lasciata la possibilità, lavorando, di integrare le proprie scarse entrate almeno di un altro minimo: non più di 400 euro circa al mese, per non superare il limite di reddito. Quest’ultima comunicazione dell’Inps, invece, equivale a una condanna alla povertà.

Senza alternative o tutt’al più quella di rientrare fra i beneficiari del Reddito di cittadinanza, sempre che sia in povertà anche l’intera famiglia dell’invalido. Basterebbe questo a far gridare allo scandalo per il trattamento economico così iniquo e ingiusto dei componenti più fragili e negletti della nostra società.

Ma c’è di peggio ed è l’ingiustizia sociale di cui diventano vittime le persone colpite da una disabilità parziale: la negazione della possibilità di esprimere sé stessi attraverso il lavoro, di sentirsi parte attiva di questa società, facendo leva sulle proprie capacità, per quanto ridotte. Il lavoro, che è esperienza fondamentale del vivere e base dell’inclusione sociale, infatti, viene di fatto sottoposto a ricatto: se il disabile vuol sentirsi attivo lavorando niente più assegno d’invalidità, se vuole l’elemosina dell’assegno, allora non potrà realizzarsi lavorando, non potrà sfruttare le sue residue capacità.

Equivale a dire che se un disabile trova un’occupazione – qualsiasi, non importa pagata quanto – per lo Stato è come se non fosse più invalido, e la società non deve più sentirsi in obbligo di sostenerlo. Ma così facendo si viola apertamente il dettato e soprattutto lo spirito della Costituzione.

È utile ricordare al presidente del Consiglio, Mario Draghi, e al ministro della Previdenza sociale, Andrea Orlando, che per sanare questa doppia ingiustizia non servono né spese né grandi interventi, basta un comma di interpretazione nella Legge di Bilancio. Per gli invalidi parziali non è solo una questione economica, ma prima di tutto di dignità ferita

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