giovedì 23 aprile 2009
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Caro Direttore, scrivo in riferimento all’articolo 'La pirateria in Italia sta uccidendo il cinema' a firma di Annalisa D’Aprile, pubblicato il 17 aprile. Premetto di non essere un cinefilo, per cui forse non sono preso emotivamente dalla questione. Però questo potrebbe anche essere un motivo di maggior lucidità nel guardarci dentro. Prendo il caso del cinema italiano: in genere è finanziato con denaro pubblico, vale a dire tasse del cittadino, il quale poi paga mediamente 7 euro per entrare al cinema e 20-25 per acquistare un Dvd. Come a dire che il cittadino finanzia un film e per vederlo poi paga; film che, a giudicare dalle recensioni, negli ultimi anni sono quasi sempre legati al tema di «cotte» adolescenziali o storie di casalinghe. Il che francamente non mi pare grande cultura, con tutto il rispetto per queste e quelli. Stando così le premesse dunque, siamo certi che la ragione sia necessariamente dalla parte dell’industria? Non siamo invece semplicemente di fronte alla crisi strutturale di un sistema superato, immotivatamente costoso e non più in grado di soddisfare le attese del pubblico? A me pare infatti che la cosiddetta «pirateria» altro non sia se non il rivolgersi a canali distributivi più efficaci, meno costosi e con miglior catalogo a disposizione; certo, forse ora un po’ di «contrabbando», ma probabilmente in attesa che l’industria capisca che è venuto il tempo di adeguarsi. Forse Internet, e qui credo stia il nocciolo, ha portato una ventata di «libertà» e di opportunità che a certi «monopoli» non piace. Tuttavia la storia, benché non se ne impari mai nulla, fa sempre il suo corso e chi non desidera seguirla prima o poi si estingue.

Daniele Lucchini, Mantova

Il tema che lei tocca, caro Lucchini, è dibattuto da tempo e nei giorni scorsi è tornato in grande evidenza per la condanna in Svezia dei responsabili di uno dei siti più famosi di scambio di files via Internet, dal nome evocativo di «Baia dei pirati», a conclusione di un processo (di primo grado) nel quale si sono fronteggiate le due «filosofie» che lei richiama: quella dell’industria che vuole tutelare i propri prodotti, e i paladini della rete come zona franca che pretendono scambi sempre liberi e gratuiti. Personalmente, se da un lato ritengo che talvolta le norme a salvaguardia del diritto d’autore impongano tutele dalle durate irragionevoli e che i prezzi pretesi per certi film, giochi, canzoni siano eccessivi, non riesco a trovare convincenti i suoi argomenti. Provi a cambiare appena un po’ l’esempio, passando dal cinema italiano a quello americano o alla musica: la sua giustificazione – «Abbiamo già pagato con le tasse» – frana irrimediabilmente. Un’infinità di prodotti – film, canzoni, libri, programmi per computer, giochi... – è scaricata abusivamente, senza alcun consenso dei legittimi proprietari. Questi vengono defraudati del loro legittimo compenso. In un negozio normale, se si ritiene che un prezzo sia troppo alto, si lascia l’oggetto sullo scaffale; il relativo anonimato e l’altrettanto relativa invisibilità di Internet – sempre meno effettive, peraltro – non possono autorizzare quella che resta un’appropriazione indebita. Concordo con lei sul fatto che Internet abbia introdotto cambiamenti irreversibili di abitudini nell’acceso e nella fruizione di contenuti culturali per una parte già amplissima della popolazione. E anch’io ho l’impressione che l’industria non abbia ancora trovato la misura giusta nel reagire, ma il dissenso dai comportamenti di case discografiche e produttori cinematografici non autorizza il ricorso all’«esproprio digitale di massa».
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