venerdì 11 giugno 2010
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Caro direttore,sono un insegnante di Filosofia dell’Isis "Antonio Serra" di Napoli. Sono al ventesimo anno di carriera. Tutte le mattine entro in classe con piacere per intercettare gli occhi, gli interessi, le emozioni, l’anima ma anche i disagi e la noia esistenziale dei miei ragazzi. Tutti i giorni ringrazio Iddio di farmi apprezzare il mestiere che svolgo e di provare entusiasmo per la disciplina che insegno; e tutti i giorni Lo ringrazio se riesco a trasmettere un po’ di questa passione ai miei studenti. Ma il contesto nel quale gli insegnanti lavorano è ammalato di burocratese, di didattichese e di una grottesca parodia di aziendalismo, e questo fa a pugni con la necessità di offrire agli alunni una proposta di senso in grado di aiutarli nella crescita e di aprirli con fiducia e speranza alla vita. E purtuttavia, resisto, poiché confido nei giovani. Questa deriva impiegatizia e burocratica ci spinge a essere altro rispetto a ciò che io credo gli insegnanti debbano essere, e cioè educatori capaci di amare ciò che insegnano e titolati – forti di questo amore – a scuotere i giovani da pigrizie, sciatterie, mal di vivere che spesso li avvolgono in una spirale perversa e talvolta addirittura necrofila. Tutto questo io lo vedo ogni giorno. Poi leggo di Tremonti, della crisi economica, della manovra, dei tagli e del mio magro stipendio di 1.450 euro, che per tre anni sarà congelato. Non mi piace reagire agli eventi corporativamente e guardando solo al mio "particulare", ma qualcosa non mi torna. In questione è la composizione interna di questa manovra, la sua iniquità e la sproporzione tra i soliti noti che pagano troppo e quelli – anch’essi assai noti – che pagano poco o nulla. Da un calcolo approssimativo, il mio contributo alla manovra varata dal governo fino al 2013 sarà di 8.000 Euro. Quale categoria, in proporzione alla sua capacità contributiva, sarà chiamata a un analogo inverosimile salasso economico? Ho senz’altro contezza che ci sia bisogno di risparmiare, di tagliare le spese improduttive, di disboscare inefficienze e sprechi. Anche nella scuola. Ma mi domando: siamo sicuri che nella scuola non ci fosse altro da tagliare? Siamo sicuri che tutti i fondi che arrivano nelle scuole dalle strade più varie, nazionali ed europee siano usati per il miglioramento dell’offerta formativa e non, talvolta, per la creazione di un baraccone para-assistenziale dalla dubbia valenza formativa e dal certo effetto di dissipazione del denaro pubblico? Perché non si taglia lì e invece, si colpisce il mio magro stipendio? C’è in questa scelta, secondo me, un antipedagogismo burocratico. E ancora. Tutti quei discorsi, per me sacrosanti e perfino un po’ tardivi, sulla valorizzazione del merito, dei capaci, dei meritevoli, dove sono finiti? Comincio a chiedermi, dal basso delle mie illusioni, fino a quando la mia generosa astrattezza di educatore, quello che può apparire il mio ingenuo donchisciottismo, reggerà alla mortificazione sociale e al dileggio della mia dignità professionale. Non lo so. Ma non so neppure se il sottoscritto, da domani, non riterrà forse più produttivo associarsi ai "nullafacenti" di brunettiana memoria. Tanto, alla fine, si viene messi nello stesso mazzo… Una sola cosa pretendo da Lorsignori. Di risparmiarci da domani la solita e a questo punto nauseante litania, intorno al valore dell’educazione e della cultura.

Gennaro Lubrano Di Diego, Napoli

Leggo questa sua riflessione, caro professore, e penso a mio padre che ha insegnato filosofia come lei, per tanti anni. Penso che ancora oggi mi capita d’incontrare persone che riconoscendomi, mi dicono: «Ah, ma lei è il figlio del professore...». Donne e uomini che mi restituiscono un po’ del tempo, del pensiero e delle parole che mio padre ha dato loro. Per me, può immaginarlo, è un’emozione fortissima. Ma è anche un sempre nuovo motivo di riflessione. Perché chi insegna fa un lavoro semplicemente straordinario; e chi insegna «con piacere», come lei dice, trasmette una ricchezza che non si perde e che si moltiplica. Nella prima parte della sua lettera, lei ce ne spiega assai bene la ragione. Nella seconda parte, riesce a farci sentire sino in fondo una motivata amarezza, fatta più cruda da riconoscimenti centellinati e impalpabili e da tagli arcigni e indiscriminati. Sono convinto anch’io, non da oggi, che uno dei grandi misfatti degli ultimi decenni sia stato l’aver progressivamente "picconato" il senso del lavoro degli insegnanti, burocratizzando il loro impegno e impiegatizzando il loro specialissimo mestiere. E, da cronista, ho annotato con preoccupazione l’inevitabile sbriciolamento del ruolo sociale dei maestri e dei professori che ha enfatizzato questa deriva. Credo che si debba fare i conti con tutto ciò. E so che prima lo si fa, meglio è. Soprattutto in un tempo nel quale vorremmo vedere in cima alla lista delle priorità la «sfida educativa» che ci sta urgentemente davanti. La ringrazio, caro professore, per avermi aiutato ad annotarlo qui, oggi, al limitare di un altro anno scolastico segnato da ombre e, nonostante tutto, da luci che non verranno mai colte e dette abbastanza. E la prego: tutte le mattine, entrando in classe, continui a essere se stesso. Anche gli studenti guardano negli occhi i loro professori.
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