martedì 20 gennaio 2015
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Chi ha visto American sniper non lo dimenticherà tanto presto, perché il film emana un fascino maligno. Chi ha visto il filmato in cui il bambino di dieci anni, sotto la guida di un miliziano dell’Is, spara alla nuca di due prigionieri inginocchiati e ammanettati non lo dimenticherà. E nessuno di noi dimenticherà le scene centrali della strage di Parigi, anzi delle stragi, perché a quella dentro la redazione del giornale va aggiunta quella nel negozio di alimentari. Che cos’è che tiene quelle scene agganciate al nostro cervello?  Partiamo dal bambino. Sta di fronte a noi, ci mostra la faccia. Nella mano destra, abbandonata lungo il fianco, tiene una pistola. Indossa dei pantaloni color kaki, tipo divisa militare estiva, e un maglione scuro. Ha i capelli lunghi, femminei. Come se fosse cresciuto a Londra. Dietro gli sta un omone gigantesco, che gli dà gli ordini. Ma non sono ordini, sono parolette e toccatine sulle spalle. All’ultima toccatina il bambino alza l’arma, prende la mira, e spara. Un uomo cade in qua, verso di noi. Altro colpo, cade il secondo. Il bambino è soddisfatto. L’Is ha postato questo video su Internet; per dimostrare che cosa? Secondo me, tre cose.  Che dopo gli attuali combattenti dello Stato islamico ci saranno altri combattenti, eccoli che imparano. Che se è un bambino a uccidere, allora uccidere è innocente, perché un bambino è sempre innocente. Che l’Is è onnipotente, perché ci uccide anche per mano dei bambini, e uccidere è il gesto più potente che si possa compiere: chi uccide è padrone della vita degli altri.  L’Is vuol mostrare con quel filmato la propria onnipotenza e la nostra impotenza. La scena clou di American sniper è quella in cui il cecchino protagonista inquadra nel mirino il bambino che ha raccolto da terra un bazooka già carico, se lo adagia sulla spalla destra, e prende la mira. Può sparare in qualsiasi momento. Se preme il grilletto, il razzo parte con un sibilo, e distrugge qualunque cosa, anche un carro armato. È una bomba 'a carica cava', la potenza dell’esplosione si concentra in una frazione di centimetro, e per il buchetto si scarica nell’abitacolo del carro armato un fuoco da migliaia di gradi. Tutto brucia. E prima di tutto gli uomini. Il cecchino lo sa.  Eppure non spara sul bambino. Aspetta. Aspetta ancora. Fin che il bambino rinuncia a sparare, getta l’arma e scappa. Il cecchino respira di sollievo. Era padrone della vita e della morte, ha scelto la vita, rischiando. È buono. Centinaia di altre volte non rischia. Potendo sparare su donne o bambini, ha sparato. Egli non fa il bene se uccide un nemico in azione, basta che uccida un nemico. Non occorre che sia in azione, basta che possa esserlo. Anzi non occorre neanche che sia un nemico, basta che possa esserlo. È l’onnipotenza. Vive o muore chi tu vuoi che viva o che muoia.  Questo cecchino si vanta di aver ucciso 260 nemici, l’esercito gliene riconosce 160. Molti di loro non sono nemici, e quindi quelli non sono eroismi, ma omicidi.  Non importa, sulla sua bara vanno inchiodate 160 onorificenze. Nella doppia strage di Parigi ci ha sorpreso l’immediatezza delle uccisioni: entrano nel giornale e uccidono quelli chi trovano, loro hanno in mente dei nomi, ma chi non c’è buon per lui, poi un altro va nel negozio di alimentari ebraico e per prima cosa uccide i quattro che trova. Si presta anche a un’intervista, registrata, l’abbiamo sentita. Alla domanda «quanti sono con te?», risponde: «Quattro morti», poi passa agli altri, con indifferenza. Tutti, quelli che uccidono prigionieri in Siria, quelli che uccidono ostaggi a Parigi, quelli che uccidono nemici col fucile di precisione, sono invasi da un delirio di onnipotenza. L’importante è uccidere, dare una lezione. L’onnipotenza si abbina con la gratuità. Torniamo al cecchino: è morto a casa, in congedo, mentre in un poligono insegnava a un collega a sparare. Il collega, non a posto col cervello, gli ha sparato addosso. Si dice: una morte assurda. Ma lui aveva dato centinaia di esempi di questa assurdità. Perciò è morto coerentemente.
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